Ieri sera il maestro Giovanni Allevi è salito sul palco di Sanremo per brindare alla vita. Ha scelto l’evento simbolo della musica italiana per mostrarsi al mondo.
Abbiamo parlato in passato di lui e degli insegnamenti di vita che sta diffondendo in questi anni con la sua malattia.
Leggi —> L’insegnamento di Giovanni Allevi sulla vita e le sue prove
Il suo corpo ieri sera è apparso affaticato, stanco e dolorante. La sua anima, invece, gioiosa e in festa. Non perché finalmente libera dai dolori del corpo, ma perché consapevole dei doni che la malattia porta a chi è in grado di coglierli. E Giovanni, profondo conoscitore dell’anima umano, sa bene come porsi nei confronti del dolore e della sofferenza.
In netto contrasto con l’immagine di salute, di eleganza e di compostezza tipiche del Festival di Sanremo, Giovanni si è mostrato in tutta la sua vulnerabilità. I tremolii alle mani, la schiena ricurva, i capelli grigi e scombinati e l’emozione che scandiva ogni suo gesto e ogni sua singola parola hanno commosso chi ha assistito al suo monologo sul palco. Per lui è stato un vero e proprio ritorno sulla scena della vita: la battaglia con la sua malattia non è vinta ma quella con la paura, con il giudizio sociale, con il timore di mostrarsi fragili probabilmente sì. Giovanni sta ancora soffrendo, ma questi due anni di allontanamento dal mondo gli hanno fatto comprendere che il dolore e la malattia giungono sempre per guarire l’anima e che vanno mostrati, rispettati, compresi e non allontanati. La malattia toglie ciò che è inutile, mostra la vera essenza umana, svela segreti, fa aprire gli occhi della verità, diviene dispensatrici di doni, maestra di vita, compagna fidata della consapevolezza.
Questo il testo del suo monologo, pensato e recitato appositamente per giungere al cuore di ognuno di noi:
“All’improvviso mi è crollato tutto. Non suono più il pianoforte davanti ad un pubblico da quasi due anni. Nel mio ultimo concerto, alla Konzerthaus di Vienna, il dolore alla schiena era talmente forte che sull’applauso finale non riuscivo ad alzarmi dallo sgabello e non sapevo ancora di essere malato. Poi è arrivata la diagnosi pesantissima. Ho guardato il soffitto con la sensazione di avere la febbre a trentanove per un anno consecutivo. Ho perso molto: il mio lavoro, ho perso i miei capelli, le mie certezze, ma non la speranza e la voglia d’immaginare. Era come se il dolore mi porgesse anche degli inaspettati doni. Quali? Vi faccio un esempio. Non molto tempo fa, prima che accadesse tutto questo, durante un concerto, in un teatro pieno, ho notato una poltrona vuota. Come una poltrona vuota? Mi sono sentito mancare. Eppure quando ero agli inizi per molto tempo ho fatto concerti davanti ad un pubblico di 15-20 persone ed ero felicissimo! Oggi, dopo la malattia, non so cosa darei per suonare davanti a 15 persone. I numeri non contano! Sembra paradossale detto da qui! Perché ogni individuo, ognuno di noi, ognuno di voi è unico, irripetibile e a suo modo infinito! Un altro dono: la gratitudine nei confronti della bellezza del creato. Non si contano le albe e i tramonti che ho ammirato da quelle stanze di ospedale. Il rosso dell’alba è diverso dal rosso del tramonto e se ci sono le nuvolette intorno è ancora più bello. Un altro dono: la gratitudine e la riconoscenza per il talento dei medici, degli infermieri, di tutto il personale ospedaliero, la riconoscenza per la ricerca scientifica senza la quale non sarei qui a parlarvi, la riconoscenza per il sostegno che ricevo dalla mia famiglia, la riconoscenza per la forza, l’affetto e il sostegno che ricevo dagli altri pazienti. I guerrieri, così li chiamo. Magari cerchiamo un altro termine ma non mi viene in mente niente. E lo sono anche i loro familiari, e lo sono anche i genitori dei piccoli guerrieri. Ora, come promesso, vi ho portato tutti qui con me sul palco, anime splendenti, esempio di vita autentica. Prima di andare all’ultimo dono facciamo. Ancora un dono: ma quanti sono? Quando tutto crolla e resta in piedi solo l’essenziale il giudizio che riceviamo dall’esterno non conta più. Io sono quel che sono, noi siamo quel che siamo. E come intuisce Kant alla fine della “Critica della ragion pratica” il cielo stellato può continuare a volteggiare nelle sue orbite perfette, io posso essere immerso in una condizione di continuo mutamento eppure sento che i me c’è qualcosa che permane. Ed è ragionevole pensare che permarrà in eterno. Io sono quel che sono. Voglio andare fino in fondo a questo pensiero: se le cose stanno davvero così cosa mai sarà un giudizio dall’esterno, voglio accettare il nuovo Giovanni. Vado? Ecco! (togliendosi il cappello e mostrando i suoi capelli grigi). Com’è liberatorio essere se stessi! Bellissimo no… si chiama fenomeno di accettazione cognitiva (dice ridendo). Per onorare la vostra attenzione e il tuo gentile invito e per dare forza e speranza alle tante persone che come me stanno ancora lottando contro la sofferenza suonerò di nuovo il pianoforte davanti al pubblico… è un’emozione grandissima, anche perché mi sembra di intuire che siamo più di quindici. Attenzione però… ho due vertebre fratturate, la D10 e la L1, adesso ne conosco anche il nome tecnico… ah vedo che qualcuno sa di cosa stiamo parlando e tremore e formicolio alle dita, nome tecnico neuropatia. Questa no? Solo io che devo suonare il pianoforte? Però come dissi in quell’ultimo concerto a Vienna, non potendo più contare sul mio corpo suonerò con tutta l’anima.”
Giovanni dopo queste parole toccanti lascia spazio alla musica, al discorso della sua anima…
Quello di Giovanni è un invito: a guardarsi dentro, a trovare quella forza interiore necessaria ad affrontare le sfide della vita, a sorridere sotto la pioggia, proprio nel mezzo della bufera, perché tutto viene svelato grazie al dolore e alla sofferenza. La malattia ci permette di aprire gli occhi dell’anima e di vedere il mondo da una prospettiva diversa, quella dell’amore. Per tutto ciò che siamo chiamati a vivere.