Resilienza, nel suo significato originario, è un termine che deriva dalla fisica. Indica la capacità dei materiali elastici di deformarsi in caso di urto, per poi ritornare allo stato originario. Si pensi alle costruzioni antisismiche in grado di oscillare per poi tornare alla posizione originale senza riportare gravi rotture.
Resilienza non è quindi equivalente al concetto di “resistenza”. Anzi, in un certo senso indica il suo opposto: la capacità di piegarsi senza spezzarsi.
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La resilienza nelle altre discipline
A partire dal suo significato originario, il termine resilienza è stato esportato nelle più diverse discipline. In informatica si parla di system resiliency. È la caratteristica che permette a un sistema di continuare a funzionare correttamente in presenza di guasti a uno o più dei suoi componenti.
In ecologia esprime la capacità di recupero o di rigenerazione di un organismo. Ma anche l’attitudine di un ecosistema a riprendersi più o meno rapidamente da una perturbazione. Si pensi alla rigenerazione di una foresta dopo un incendio.
Con resilient community, in socio-economia, si intende la capacità di aziende, organizzazioni e comunità di ritrovare l’equilibrio iniziale o costruirne uno nuovo dopo una crisi.
Allo stesso modo, in antropologia, si parla di società, etnie, lingue o sistemi di credenze resilienti.
Se nella fisica dei materiali la resilienza descrive la caratteristica di una materia inerte. In altre discipline, fa riferimento a sistemi complessi che devono abituarsi ai cambiamenti. In questi casi non si avrà un mero ritorno alla forma iniziale, ma la costruzione di un nuovo equilibrio per adattarsi al cambiamento.
La resilienza psicologica
Anche la psicologia utilizza il concetto di resilienza per descrivere la capacità della psiche di mantenersi in equilibrio di fronte a esperienze potenzialmente traumatiche.
È stata la psicologa americana Emmy Werner ad utilizzarlo per la prima volta nel suo lavoro dal titolo Vulnerable but Invincibile: a longitudinal study of resilient children and youth del 1982.
L’articolo riportava i risultati di una ricerca longitudinale condotta su bambini delle isole Haway. Questi bambini erano nati e cresciuti in contesti non scolarizzati, senza famiglia e contrassegnati da violenza e malattie. Ma, nonostante questo, all’età di 30 anni ben il 30% di loro era alfabetizzato, lavorava e aveva costituito una famiglia. Tale ricerca non si concentrò su soggetti patologici o disadattati. Ma studiò le modalità con cui un bambino su tre era riuscito, nonostante tutto, a risalire la china e a trovare un adattamento possibile.
“Quando i giapponesi riparano un oggetto rotto, valorizzano la crepa riempiendo la spaccatura con dell’oro. Essi credono che quando qualcosa ha subito una ferita e ha una storia, diventa più bello.”
(Jim Butcher, giornalista del New York Times).
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La resilienza ai traumi
L’APA (Associazione degli Psicologi Americani) definisce il significato psicologico della resilienza come “il processo di adattamento di fronte alle avversità, ai traumi, alle tragedie e ad altre significative fonti di stress. Significa ‘tirarsi fuori’ dalle esperienze difficili”.
In tale ottica, essere una persona resiliente non significa essere esenti da difficoltà o sofferenze. Ma attraversarle uscendone cambiati e più forti. Non è una caratteristica che alcuni posseggono e altri no, ma una capacità che può essere appresa nel corso della vita.
Non è determinante solo che “cosa” è accaduto, ma anche “come” la persona lo ha vissuto.
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Secondo gli Autori che hanno studiato la resilienza ai traumi (Antonovsky, 1980; 1987), tre sono i fattori protettivi che possono modulare l’impatto di un evento potenzialmente traumatico.
- Il poter percepire una qualche possibilità di controllo – concreto o immaginato – sull’evento.
- L’avere accesso a informazioni utili a decodificare e comprendere l’accaduto.
- Il significato soggettivo assegnato all’evento in relazione alle precedenti esperienze di vita.
Questi elementi sarebbero in grado di contrastare vissuti di vulnerabilità, paura e impotenza. Che sono quelli che ritroviamo invece nelle condizioni di stress post traumatico.
Come sviluppare la resilienza
La resilienza può essere intesa sia come una caratteristica di personalità, che come una capacità che può essere appresa. In diversi paesi anglosassoni, soprattutto nell’età scolare, sono state studiante vere e proprie lezioni di resilienza.
Non si tratta infatti di una dimensione “tutto o nulla”. Il nostro grado di resilienza di fronte agli eventi della vita è sempre il risultato della combinazione di nostre caratteristiche individuali e aspetti relativi al contesto.
Si pensi ad esempio alla comunicazione di una diagnosi medica potenzialmente sconvolgente. L’impatto di tale notizia dipenderà sia dalla capacità della persona di gestire lo stress. Come anche dal significato soggettivo che questa assegnerà all’evento. Ma dipenderà anche dai tempi e modi in cui verrà data la comunicazione da parte del medico. Se anticipata frettolosamente durante un esame invasivo o disagevole. O se comunicata con tatto solo alla fine della visita, quando il paziente è seduto e vestito davanti al medico. E gli esempi potrebbero continuare…
In senso più generale, la capacità di rispondere in modo resiliente agli “eventi che capitano” può essere influenzata da tre ordini di fattori (Rutter, 2007; Werner & Smith, 1992 Vaillant, 1993; Cramer, 2000).
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1. Fattori familiari
La qualità dell’ambiente familiare in cui siamo cresciuti può influenzare significativamente la nostra capacità di far fronte agli eventi e alle loro conseguenze emozionali.
Per adottare una corretta strategia di fronteggiamento è necessario non solo prendere di petto il problema da un punto di vista pratico. Ma anche saper gestire le reazioni emozionali che esso ci suscita senza lasciarcene travolgere o distaccarci dal problema. Saper riconoscere e utilizzare le emozioni come “bussola” per orientarsi nella vita, fa parte di quella capacità di regolazione affettiva che è alla base della salute psicologica. È una capacità che si apprende gradualmente nel corso dello sviluppo. Questo avviene tanto più facilmente quanto più empatico e convalidante è stato il contesto familiare.
In alcune famiglie si parla e ci si occupa solo degli aspetti concreti, fattuali dell’esperienza. Ce ne sono altre dove si agiscono le emozioni nei modi più distruttivi con urla o liti furibonde.
In altre ancora si ha invece la possibilità di parlare a voce, dirsi a parole come ci si sente. Questo aiuta i bambini a riconoscere le emozioni in sé stessi e negli altri. A dar loro un nome e utilizzarle per comprendere i comportamenti propri e altrui.
2. Fattori sociali
Far fronte agli eventi difficili significa anche poter contare su persone che siano di supporto. In generale gli altri possono fornirci tipologie diverse di sostegno. Alcuni saranno più pronti a fornirci aiuto pratico e organizzativo. Sono coloro che chiameremo per farci prestare dei soldi o aiutarci a prenotare una visita. Altri saranno in grado di ascoltarci e sostenerci emotivamente. Non ci sarà probabilmente un’unica persona che potrà darci tutto. Ma persone diverse potranno, ognuna secondo le sue possibilità, darci qualcosa. Saper riconoscere questo significa poter valorizzare le fonti di supporto sociale a propria disposizione e riuscire ad appoggiarsi quando serve.
3. Fattori individuali
Alcune caratteristiche individuali, derivanti da nostro temperamento o dal nostro funzionamento di personalità, possono letteralmente salvarci la vita. Fra queste capacità resilienti possiamo annoverare le seguenti.
- Il senso dell’umorismo.
- La capacità di gioco.
- L’immaginazione.
- Il pensiero creativo per la soluzione dei problemi.
L’umorismo è una funzione psichica che consente cogliere aspetti paradossali e contraddittori anche degli eventi più tragici. Questo consente di sorriderne mettendo una distanza “sana” fra sé e la portata emotiva degli eventi.
Così come poter utilizzare la creatività e l’immaginazione significa poter ricorrere a strategie di pensiero alternative. O trovare soluzioni là dove quelle già battute non sembrano funzionare.
Essere resilienti, in altre parole, significa anche saper sorridere degli eventi, saperne cogliere aspetti buffi e contraddittori, poter sovvertire l’ordine in cui ci appaiono per osservarli da nuovi punti di vista.
“Attraverso l’umorismo noi vediamo in ciò che sembra razionale, l’irrazionale; in ciò che sembra importante, il non importante.”
(Charlie Chaplin)