In psicologia si intende per comportamento prosociale un insieme di comportamenti finalizzati ad aiutare gli altri e, così facendo, generare un valore non solo per i singoli, ma per l’intera collettività.
Sebbene sia nella sostanza sinonimo di altruismo, quest’ultimo è più spesso utilizzato per sottolineare il carattere (apparentemente) disinteressato di una condotta di aiuto. Il concetto di prosocialità rimarca invece non solo i benefici individuali ma anche indirettamente collettivi di tali condotte.
Ma davvero possiamo pensare che un comportamento altruistico possa o debba essere disinteressato per essere efficace?
E perché in alcune situazioni le persone mettono in atto gesti di vero e proprio eroismo, mentre in altre sembrano ignorare i più elementari codici etici e morali? Proviamo a fare un po’ di ordine…
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Comportamento prosociale e cultura del “sacrificio”
Una certa parte di un consolidato mainstream vuole che i gesti altruistici per essere “politicamente corretti” e autentici debbano essere “disinteressati” privi cioè di qualsivoglia ritorno per chi li compie.
L’assunto di base, piuttosto semplicistico, è che la prosocialità debba fondarsi sul fatto che io, solo privandomi di qualcosa, possa dare o generare aiuto e beneficio per un’altra persona.
Questo concetto piuttosto riduttivo e limitante permea, come si diceva, una larga parte del sentire comune generando non poche confusioni.
In primo luogo perché questa sorta di visione alla “Robin Hood” limita l’orizzonte del comportamento prosociale entro una dinamica one-to-one acontestuale. Certo, in carenza di cibo, mi privo di una parte del nutrimento a mia disposizione per sfamare anche un altro essere umano. Ma i comportamenti prosociali sono molto più ampi e complessi e possono mal adattarsi a questa semplicistica cultura del sacrificio…
Si pensi al nostro potere di acquisto come consumatori, al peso che potremmo avere con le nostre scelte di consumo al sostengo di realtà più e meno etiche. Si pensi a quegli eventi effettivamente commerciali – come concerti o altri tipi di intrattenimento, che attirano partecipanti anche perché dichiarano di devolvere una parte dell’incasso ad una causa umanitaria. O, ancora, a quelle realtà imprenditoriali che devono la propria reputazione anche al loro impegno in iniziative solidali … Questi esempi ci mostrano come le scelte e le azioni altruistiche non debbano scontatamente derivare da una “privazione” di qualcuno a favore di qualcun altro, ma possano avvantaggiare entrambe le parti contemplando anche dei vantaggi di tipo economico.
Mai come in questo casi vediamo quanto il capitalismo non sia in sé né buono, né cattivo, molto dipende dalla provenienza di certi ricavi, non dai ricavi in sé.
“Mentre tu hai una cosa può esserti tolta. Ma quando tu dai, ecco, l’hai data. Nessun ladro te la può rubare. E allora è tua per sempre.”
(James Joyce)
I vantaggi immateriali del comportamento prosociale
Ma i potenziali (e non per questo meno etici) vantaggi di un comportamento prosociale non sono solo materiali, anzi quelli immateriali sono molti di più e sicuramente più ubiquitari.
Dire che si sta aiutando un’altra persona senza ottenere nulla in cambio è una fake news bella e buona. Con questo non si vogliono certo avallare condotte di sfruttamento o manipolazione altrui, al contrario.
In qualità di esseri umani siamo predisposti, nelle giuste condizioni, a funzionare in un modo tale per cui aiutare gli altri può risultarci gratificante in vari modi.
Può essere un ritorno in termini di affettività e intimità in un rapporto. Può trattarsi di un ritorno in termini identitari o di autoefficacia. O, ancora, di aspetti più specifici inerenti al contesto, come l’importanza di proporre e costruire relazioni collaborative con un gruppo di lavoro. Fare del bene è insomma qualcosa che fa star bene chi lo compie, non solo chi lo riceve, perché procura vantaggi in termini di autostima e di qualità delle relazioni interpersonali. In tal senso i comportamenti prosociali non sono mai disinteressati perché sono evolutivamente adattivi, promuovono la coesione e la collaborazione e risultano dunque gratificanti per chi li compie.
Questo nulla toglie al valore di una condotta di aiuto, anzi, ci lega all’altro in un ideale rapporto di interdipendenza, di scambio piuttosto che di dipendenza unilaterale.
“Se aiuti gli altri, verrai aiutato. Forse domani, forse tra un centinaio d’anni, ma verrai aiutato. La natura deve pagare il debito. È una legge matematica e tutta la vita è matematica.”
(Georges Ivanovič Gurdjieff)
La questione è rimanere “umani”
Se, dunque, i comportamenti prosociali sono vantaggiosi per entrambe le parti, come mai in determinate circostanze gli esseri umani sembrano “disinnescare” questo potente meccanismo evolutivo?
Siamo predisposti in maniera innata a sviluppare sentimenti di empatia e comportamenti prosociali nei confronti dei nostri simili. Questo grazie ad un gruppo di particolari neuroni risiedenti nella nostra corteccia premotoria che gli scienziati hanno efficacemente chiamati “neuroni specchio”. Ci rispecchiamo spontaneamente nelle condizioni degli altri, nelle loro sofferenze o nei loro problemi. Possiamo comprenderli, metterci nei loro panni e soffrire per loro.
Tutto questo perché siamo in grado di riconoscere negli altri le nostre stesse caratteristiche umane e dunque a considerarli simili a noi. Anche loro, al pari di noi, hanno una “mente”: hanno sentimenti, pensieri, motivazioni, paure e dubbi. E possiamo immaginare che i loro comportamenti siano mossi da tutta questa complessa serie di eventi mentali nei quali facilmente ci immedesimiamo. Il nostro stesso sentirci umani è legato a riconoscere e tutelare l’umanità nell’altro.
Psicopatologie individuali a parte, in determinate condizioni gli esseri umani possono però abdicare drammaticamente a questa inclinazione.
Questo avviene spesso all’interno di contesti di gruppo in cui facilmente la mente dei singoli regredisce a modalità di funzionamento meno evolute diluendosi con la “massa” indifferenziata.
Il bisogno di conformismo e di appartenenza ci induce facilmente a imitare il comportamento altrui sospendendo il pensiero o l’azione prosociale.
L’episodio di Kitty Genovese e l’effetto spettatore
Tristemente esemplificativo è il noto episodio di Kitty Genovese, una ragazza newyorkese barbaramente aggredita e uccisa negli anni ’60 sotto gli occhi dei vicini. Quasi 40 persone si erano rese conto dell’aggressione eppure nessuno fece nulla, neppure chiamare tempestivamente i soccorsi.
Come è potuto accadere che queste persone rimanessero spettatori passivi di un crimine tanto efferato?
Latanè e Darley, gli psicologi che studiarono questo fenomeno, rintracciarono la spiegazione di un comportamento così paradossale in due meccanismi.
Quello della diffusione della responsabilità e della cosiddetta ignoranza pluralistica.
In un contesto di gruppo può accadere che, di fronte ad un’emergenza, ci si percepisca meno direttamente responsabili di agire perché si tende implicitamente a “diluire” la responsabilità con le altre persone. In altre parole, si sta dando erroneamente per scontato che “ci penserà qualcun altro”.
Ma non basta, spesso la nostra valutazione del rischio e del pericolo può risultare fatalmente distorta se ci lasciamo influenzare dal comportamento altrui. Questo perché ci stiamo basando su ciò che fanno/non fanno gli altri piuttosto che sulle nostre personali valutazioni.
Se in una situazione che individualmente riterremo pericolosa, i presenti si comportano come nulla fosse potremmo aspettare a dare l’allarme. Potremmo adeguandoci conformisticamente al modo di fare prevalente e temendo che la nostra iniziativa “fuori dal coro” potrebbe risultare inappropriata o fuori luogo.
Non dobbiamo mai dimenticare che l’empatia e la capacità di porci dei dubbi, invece di confonderci nella massa, sono gli ingredienti per restare “umani”. Anzi… per esserlo ancora di più.
“Ciò che abbiamo fatto solo per noi stessi muore con noi. Ciò che abbiamo fatto per gli altri e per il mondo resta ed è immortale.”
(Harvey B. Mackay)