Cosa significa entrare in empatia con gli altri? E quali sono le caratteristiche principali delle persone empatiche?
L’empatia è un termine molto usato, spesso abusato e foriero di stereotipi e falsi miti. Vediamo allora di fare un po’ di chiarezza.
“Se ciò che io dico risuona in te, è semplicemente perché siamo entrambi rami di uno stesso albero.”
(William Butler Yeats)
1. Empatici si nasce… e si diventa!
Sebbene l’empatia possa sembrare una capacità quasi “magica” o appannaggio di pochi, si tratta di una facoltà potenzialmente innata in ognuno di noi. Lo sostengono anche le neuroscienze.
Da diverso tempo è ormai dimostrato che esistono nella corteccia premotoria dei primati e degli umani alcuni neuroni deputati proprio all’immedesimazione con le azioni, intenzioni e stati d’animo degli altri. Il nome dato a questo gruppo particolare di neuroni è decisamente evocativo: sono stati soprannominati “neuroni specchio”. In pratica, ogni qualvolta osserviamo un altro compiere un’azione o un gesto, è come se a livello subliminale, attraverso questo substrato neurale, anche noi “rispecchiassimo” quella medesima azione nella nostra mente. Si pensi, ad esempio, all’importanza dell’apprendimento per imitazione.
Qualcosa di non molto diverso avviene per gli stati emozionali. Sebbene le vicende della vita possano essere diverse e personalissime per ognuno di noi, tutti, in quanto esseri umani, attingiamo alla stessa “tavolozza emotiva” per comporre i nostri stati d’animo. Ci emozioniamo attingendo ad una sorta di “alfabeto” emotivo comune da cui componiamo stati emozionali personalissimi che tuttavia gli altri possono riconoscere e comprendere.
Ecco perché la tristezza dell’altro – se ne riconosciamo le caratteristiche umane che lo rendono simile a noi – risuona nella nostra mente emozionale.
Tutti noi dunque siamo programmati per generare risposte empatiche, ma lo facciamo in varia misura a seconda della nostra competenza emotiva. A seconda cioè di quanto abbiamo imparato ad utilizzare questo alfabeto emotivo comune per riconoscere e gestire gli stati emozionai in noi stessi e negli altri.
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2. Le persone empatiche “sentono” quel tanto che basta …
Spesso l’empatia viene confusa con fenomeni di contagio emotivo tutt’altro che sani e costruttivi. A prestare il fianco a tale fraintendimento è anche, se vogliamo, l’etimologia della parola. Empatia dal greco antico significherebbe letteralmente “sentire con…”. Da qui la suggestione di una immediata e totale connessione psico-emotiva con l’altro, l’illusione di poter vivere vicissitudini e dolori emotivi al suo posto, la fantasia di “essere lui/lei” per un momento e poter così sanare alla perfezione qualunque ferita…
Sono tutte dimensioni implicite che animano, spesso anche in maniera inconsapevole, la nostra mente quando sentiamo di voler aiutare l’altro.
Niente di più fuorviante. L’empatia vera e propria, quella sana e costruttiva dal punto di vista relazionale e affettivo, non implica immergersi totalmente nel vissuto dell’altro. Perché da un contagio emotivo di tal sorta non potremmo che restare rovinosamente sopraffatti. Se la portata emotiva dello stato mentale dell’altro ci travolge rischiamo soltanto di soccombere insieme a lui a quel che sta accadendo senza portare alcun conforto o vantaggio alla relazione.
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Empatia significa partecipare in qualità, ma non in quantità, allo stato d’animo altrui. Significa coglierne la tonalità affettiva quel tanto che basta per comprenderne la natura. Ma percependola in una tonalità smorzata, attutita, meno travolgente rispetto a chi la sta vivendo in prima persona. Pensate ad un aperitivo in cui vi si propongano assaggi di varie pietanze: il soggetto empatico non sta facendo un pasto completo, ma solo un assaggio…
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3. … e non giudicano
Un altro aspetto che contraddistingue le persone empatiche è la sospensione del giudizio. Diceva Carl Rogers che solo nel momento in cui si è disposti ad accettarsi così come si è ci si apre alla possibilità del cambiamento. Ma a volte, quando si sta soffrendo molto, quando si attraversano difficoltà emotive profonde la tentazione di cedere al giudizio e al biasimo verso sé stessi è troppo forte.
Si può beneficiare allora dell’ascolto empatico di qualcuno che sia disposto a sentire con il cuore la natura delle nostre sofferenze senza giudicarle, rimandandoci sostegno e rispetto verso ciò che stiamo provando. Solo sospendendo il giudizio, infatti, possiamo trovare la forza di attraversare con onestà il dolore emotivo e trasformarlo in nuove forza.
4. Le persone empatiche non leggono nel pensiero …
Dicevamo che le persone empatiche partecipano all’emozionalità altrui senza immergervisi totalmente. Questo va a sfatare un altro falso mito che noi tutti, in un modo o nell’altro, ci portiamo dietro nostro malgrado. Quello cioè che sia possibile o auspicabile realizzare una sorte di fusionalità fra la nostra mente e quella dell’altro. E che questa rappresenti la modalità di incontro più profondo e intimo con un altro essere umano.
Non potremo ma sentire al posto di un altro, potremo solo comprendere qualcosa, ma mai tutto, di ciò che avviene nella sua mente.
Questa sorta di ineliminabile “opacità” tra le menti è quanto in realtà di più prezioso abbiamo a nostra disposizione nelle relazioni interpersonali. Se un’altra persona, per il solo fatto di essere empatica, potesse davvero sentirsi al nostro posto, capire tutto di noi, comprenderci al di là delle parole non avremmo più alcuno spazio “privato” nella nostra mente. Se potessimo realmente fare l’esperienza di sentirci totalmente trasparenti agli occhi dell’altro, questo non ci farebbe sentire finalmente amati e capiti, ma piuttosto espropriati della nostra individualità.
Poter capire qualcosa, potersi sintonizzare sull’emotività dell’altro pur non conoscendo tutto di lui è la vera sfida e la vera ricchezza che costruisce l’intimità: potersi incontrare profondamente pur rimanendo esseri separati.
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5. … ma probabilmente hanno una buona intelligenza emotiva
Dicevamo che l’empatia è una facoltà tipicamente umana che non tutti esercitano allo stesso modo. Questo non dipende da quanto ci interessiamo o abbiamo a cuore le sorti di altre persone o almeno non solo.
Le persone sono solitamente interessate agli altri, ma non tutte in grado di comprenderli ed empatizzare con loro allo stesso modo.
Prendiamo l’esempio di una bambina che apprenda a scuola di un gravissimo incidente accaduto ad un suo compagno di classe. E che torni a casa omettendo di raccontare l’accaduto ai genitori. Sarebbe un errore pensare che quella bambina provi indifferenza rispetto alla portata dell’evento, o che non abbai premura per la salute del suo compagno. Con molta più probabilità, la notizia è stata così shoccante per lei che la sua mente l’ha “congelata” da qualche parte prendendone le distanze e non trovano parole per condividerla.
Anche agli adulti accade, ad esempio con alcuni lutti, di non provare apparentemente nulla di fronte ad eventi invece molto dolorosi. E non perché quell’evento sia indifferente, ma, al contrario, perché è tale la sua portata emotiva che se ne sono prese le distanze fino ad anestetizzarsi da esso.
Questi meccanismi accadono tanto più frequentemente quanto meno abbiamo dimestichezza con le nostre emozioni. E di conseguenza avremo difficoltà a riconoscere o tollerare anche quelle altrui e la nostra capacità di percepire gli altri potrà risultare in alcune circostanze più limitata. Non certo perché non abbiamo a cuore le altre persone!
Le persone empatiche hanno invece una buona intelligenza emotiva, sono cioè sufficientemente in grado di riconoscere i vissuti emotivi, anche i più disturbanti, tanto in sé stessi quanto negli altri. E riescono a modularli senza farsene travolgere. Riescono, in altre parole, a continuare a pensare mentre provano una data emozione.
Molti percorsi di psicoterapia portano le persone ad acquisire una migliore intelligenza emotiva e, con essa, una maggiore capacità empatica a tutto vantaggio dell’intimità e della soddisfazione nelle relazioni interpersonali.
“Ogni persona che incontri sta combattendo una battaglia di cui non sai nulla. Sii gentile, sempre.” (Ian Maclaren, pseudonimo di John Watson, scrittore e teologo scozzese)
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