Girato di spalle o col viso interamente coperto dallo schermo del computer che si frappone, come una vera e propria barriera, fra sé e il paziente. Questi inizia a raccontare del proprio problema, ma viene subito interrotto da domande puntuali, precise, che spesso seguono un protocollo rigido e prestabilito. D’altra parte, specie se si lavora in un servizio pubblico ma non solo, il tempo per ogni visita è poco, i ritmi spesso fin troppo serrati…
Questa è un’esperienza comune, comunissima, a tante persone che nell’arco della propria vita si siano interfacciate con un medico e si siano sentite schiacciate da un ingranaggio asettico incentrato esclusivamente sulla “parte” malata a prescindere dalla persona nel suo insieme. La scienza medica però ha sempre più a che fare con patologie croniche nella cura delle quali ha sempre più rilevanza la collaborazione del paziente, la sua partecipazione informata e consapevole alle terapie e alle abitudini comportamentali da osservare per convivere con la malattia preservando al meglio la qualità della vita. Si pensi a patologie come diabete, morbo di Crohn, psoriasi, uveiti, disturbi tiroidei e altre, come l’HIV e – in taluni casi – lo stesso cancro.
Da alcuni decenni si sono imposti dunque problemi nuovi nel rapporto medico paziente e, con essi, la necessità di un cambio di paradigma da una concezione direttiva e autoritaria a una più collaborativa fondata su un’ottica biopsicosociale della salute e della malattia (World Health Organization, 1986).
Le caratteristiche del medico empatico
Vediamo dunque quali potrebbero essere, dalle più “teoriche” alle più operative, 10 possibili caratteristiche del medico empatico.
- Per fare prima e fare meglio basta un minuto in più
Spezzare la narrazione spontanea del paziente con domande precostituite non solo inficia una relazione empatica e impedisce al paziente di sentirsi veramente ascoltato e compreso, ma ha ripercussioni spesso negative anche sull’interesse del medico. Alcuni studi hanno dimostrato che, se lasciati liberi di raccontarsi spontaneamente, i pazienti spesso rivelano nell’arco di un minuto quelli che sono i segni e i sintomi principali del problema di salute che li affligge. Un’intervista eccessivamente strutturata, al contrario, può rendere paradossalmente frammentata e incompleta la narrazione. Sarà esperienza comune a molti clinici quella del paziente che solo nel momento di lasciare la stanza ricorda di condividere un’informazione importante che modifica il quadro che si era costruito fino a quel momento.
Non a caso esiste da alcuni anni la Medicina Narrativa sistematizzata per la prima volta da Rita Charon (2006), medico internista, nel suo libro Narrative Medicine. Honoring the stories of illness. Questo approccio esorta i medici a rivalutare il potere della narrazione nel rapporto empatico con i loro pazienti. Ascoltare il racconto del paziente con l’intenzione di comprendere il vissuto della malattia del punto di vista di quest’ultimo pone le basi per un autentico rapporto di fiducia e collaborazione.
“In medicina noi abbiamo evidenze che derivano dai numeri e dalle statistiche, ed evidenze che derivano dalle parole. I pazienti hanno bisogno di ambedue. (…) Sia numeri che parole raccontano una storia: sono strutture metaforiche e ambedue illustrano la realtà. Tutte e due le realtà sono importanti”
(Rita Charon)
- Medico e paziente spesso hanno priorità diverse
A prima vista potremmo essere portati a dare per scontato che medico e paziente abbiano a cuore lo stesso problema, abbiano le stesse priorità nel volerlo affrontare e lo intendano allo stesso modo. Così non è. Come hanno illustrato Moja e Vegni 2000) – a cui si farà riferimento per la gran parte delle considerazioni illustrate qui e nel paragrafo successivo – il medico è tradizionalmente portato a concentrarsi solo sulla malattia clinica (disease), definita da quei segni e sintomi utili a fare diagnosi e uguali per tutti i pazienti. Il paziente è invece portatore di un soggettivo “vissuto di malattia” (illness) comprensivo dei suoi punti di vista, bisogni e preoccupazioni al riguardo. Per questo motivo è indispensabile, per un rapporto realmente empatico, che l’agenda del medico e quella del paziente si integrino fra loro e che il clinico possa orientare la propria comunicazione al paziente e le proprie scelte terapeutiche anche tenendo conto del vissuto di malattia del suo assistito.
Il paziente, infatti, avrà specifiche paure, sentimenti e idee riguardanti il suo esser malato; idee e interpretazioni riguardo a cosa non va; aspettative riguardo alla cura e – ultimo ma non per importanza – un contesto familiare, sociale e lavorativo che può incidere significativamente sulla possibilità di aderire alle terapie.
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- Raccogliere e dare informazioni
Abbiamo detto che il paziente solitamente arriva dal medico serbando, a livello più o meno consapevole, delle aspettative riguardo l’obiettivo della visita e alle modalità in cui essa si svolgerà non che riguardo la figura stessa del medico. Questi elementi possono essere rilevati dal clinico più facilmente se nella raccolta di informazioni anamnestiche egli pratica un ascolto empatico che, anziché prevenire il paziente con domande precostituite, lasci a questo lo spazio per raccontarsi spontaneamente. In tali casi, ad una efficace raccolta di informazioni, giova di più osservare il silenzio lasciando all’altro lo spazio per parlare. In tal modo si trasmetterà più facilmente rispetto e interesse per il paziente, premesse fondamentali per la costruzione di una relazione empatica collaborativa. Anche nella restituzione di informazioni e prescrizioni il medico potrebbe utilmente tener conto del vissuto di malattia del paziente: usare parole adeguate alla sua capacità di comprensione, spiegare le motivazioni che sottendono certe decisioni cliniche, considerare come il paziente potrà aderire alle prescrizioni del medico nella “real life” e, non ultimo, sincerarsi che egli abbia realmente compreso ciò che è stato detto.
- Il dottore empatico non è l’amico della porta accanto
Con rapporto empatico tra medico e paziente non si intende semplicisticamente, e forse anche impropriamente, una relazione “amicale” o informale, l’umanità dei dottori non può e non deve fondarsi su una generica quanto improvvisata confidenzialità che li porti ad uscire dal ruolo professionale.
L’empatia del medico non risiede nell’immedesimarsi nel paziente come si farebbe con un amico o un familiare, non è un romantico e intimo sentire con il cuore altrui.
Al contrario, è sempre più richiesto che i medici integrino, nelle proprie competenze professionali, anche competenze di natura relazionale che li mettano in condizione di gestire in modo strategico e competente la relazione col paziente.
Le caratteristiche dell’empatia – che implicano il partecipare dell’emotività altrui senza lasciarsene sopraffare, mantenendo la giusta distanza per utilizzare tale comprensione a beneficio dell’altro – modificano, o meglio ampliano, lo scopo dell’intervento del medico. Non si tratta soltanto di effettuare un mero intervento diagnostico e terapeutico, ma anche di negoziare e discutere col paziente, riguardo la propria soggettiva visione della malattia, per giungere, il più possibile, ad una visione strategica condivisa.
- È il medico che deve comunicare la diagnosi
Un aspetto che spesso si rivela particolarmente critico per il medico nella gestione del rapporto col paziente è quello relativo alla comunicazione di una diagnosi infausta. Da un lato, infatti, una simile evenienza confronta il medico con i dolorosi limiti della propria possibilità di sconfiggere la malattia e la morte. Dall’altro espone il clinico al doversi implicare nella relazione col paziente che da semplice “sfondo” o “cornice” di atti terapeutici, si pone improvvisamente in primo piano. Non di rado i medici si avvalgono della collaborazione e consulenza degli psicologi anche in questi frangenti. Va sfatato però un fraintendimento piuttosto comune: che possa/debba essere lo psicologo a comunicare la diagnosi. Questo sarebbe solo un atto difensivo del medico ma non un beneficio per il paziente: esiste una relazione di riferimento e di fiducia tra il medico e il suo assistito; quest’ultimo ha bisogno che sia il proprio medico, e non qualcun altro, a comunicargli le notizie sulla propria malattia. Spesso i medici – che possono essere sostenuti e coadiuvati ma mai sostituiti dallo psicologo – sottovalutano questo punto: quanto cioè sia anche il rapporto col paziente, e non solo l’atto medico, a svolgere una funzione curativa e quanto i pazienti prendano il medico a riferimento anche da un punto di vista relazionale.
- Attenzione ai pregiudizi di genere (che spesso non si sa di avere)
Lo si rileva in maniera fin troppo ovvia in ginecologia, ma qualunque medico può incappare in questo tipo di problema, soprattutto quando medico e paziente sono di sesso differente. Si tratta di un problema relazionale e clinico al tempo stesso. Da più parti si insiste ormai da tempo nel sottolineare quanto la scienza medica sia fin troppo sbilanciata su un modello maschile di malattia. I segni e sintomi clinici e i possibile effetti collaterali di farmaci e terapie sono usualmente studiati su pazienti maschi. Ci sono però patologie come l’infarto del miocardio, che possono esprimersi diversamente per le donne rispetto agli uomini. Se i clinici non tengono debitamente conto di questo, rischiano di sminuire e sottovalutare le lamentele di una donna perché non rientrano nello schema diagnostico che loro si aspettano a svantaggio non solo della relazione ma anche di una diagnosi tempestiva.
- Senso dell’umorismo o bieco cinismo?
La professione medica, come altre professioni di aiuto, è sottoposta a elevati livelli di stress e ad un certo rischio di burnout specie per coloro che nella loro pratica clinica sono esporti ripetutamente alla morte dei propri pazienti. Se un atteggiamento cinico e emotivamente distaccato può rappresentare un danno, sia per la salute mentale del medico che per l’empatia nel rapporto col paziente, un certo senso dell’umorismo può rivelarsi, invece, un importante fattore di resilienza. Sia per stemperare i vissuti del medico, nei confronti ad esempio con i colleghi, sia per contenere le difficoltà e le preoccupazioni del paziente stesso. Non si tratta dunque di un uso sarcastico dell’ironia teso ad aggredire od oggettificare l’altro; ma di un uso consapevole dell’umorismo per cogliere quegli aspetti paradossali e contraddittori dell’esperienza umana che aiutano a prendere una distanza emotiva sana dagli eventi e a stemperarli ed esorcizzarli condividendo con l’altro una sana ironia (Rubano, 2020).
- Dal paternalismo all’empowerment
Il tradizionale rapporto medico-paziente era fondato su un’ottica paternalistica ed autoritaria dive il medico forniva “ordini” e prescrizioni al paziente a cui era richiesto di conformarsi senza spiegazioni di sorta. Attualmente, e la recente normativa in materia di consenso informato lo conferma, si impone una nova visione del rapporto medico-paziente basato su una mutua collaborazione e un consenso che deve essere il più possibile informato da parte del paziente, chiamato a rendersi responsabile e co-protagonista, insieme al clinico, del buon esito delle cure. Ecco perché è importante che il paziente ponga domande, non rimanga in un ruolo passivo, e che sia incoraggiato a far questo proprio dal medico.
- Identificarsi quando ci si presenta davanti al paziente
Spesso,soprattutto nei contesti ospedalieri, i medici omettono un aspetto importante: presentarsi e rendersi identificabili agli occhi del paziente. Non è affatto raro che un paziente si trovi in ospedale prima o dopo un intervento e veda avvicendarsi nella sua stanza una serie di figure che lo visitano, fanno domande, chiedono di firmare moduli… Figure che troppo spesso rimangono ignote: di quali specialisti si tratta? Sono i chirurghi che saranno in sala operatoria? O si tratta del medico di guardia? Queste altre domande si affollano implicitamente nella mente del paziente che si interfaccia con figure mediche, magari per pochi minuti o per alcuni giorni, senza aver chiaro con chi egli stia parlando. Presentarsi, con nome e specializzazione medica, chiarendo che tipo di posto di occupa nell’organico ospedaliero aiuta il paziente a orientarsi e anche a fare domande.
- “Fa male se premo qui?”
È una frase apparentemente banale che i medici spesso sottovalutano, specie in contesti chirurgici. Spesso si rende opportuno sondare la reazione dolorosa del paziente, ad esempio per escludere complicanze infettive nei pressi di una ferita operatoria. Quello che i medici non sempre considerano – e che gli odontoiatri hanno in realtà dovuto apprendere ormai da tempo – è che se non ci occupiamo della paura del paziente di sentire dolore, rischiamo che la sua percezione di esso risultino profondamente alterate ostacolando sia il rapporto medico-paziente che l’esame clinico.
Se si sonda il cuore della ferita dove certamente il paziente avverte dolore, questi proverà spavento e avrà talmente paura di sentirlo nuovamente che è probabile si ritrarrà all’esame clinico, irrigidirà la muscolatura e questo, unito all’ansia, renderà soggettivamente dolorabili anche aree periferiche altrimenti “neutre”. Iniziare al contrario da un’area non dolente per sondare man mano dove inizia il dolore evita che il paziente alzi le difese fin dall’inizio dell’esame. In secondo luogo: rispettare il diritto del paziente di sapere se una certa procedura medica gli causerà o meno dolore. Troppo spesso i medici, nel tentativo illusorio di tranquillizzare il paziente, definiscono come “fastidio”, o altri blandi sinonimi, la conseguenza di una manovra medica che si rivela, all’atto pratico, invece decisamente dolorosa. Questo danneggia l’empatia medico-paziente e il rapporto di fiducia col paziente e peggiora la capacità di tolleranza del dolore dello stesso.
Bibliografia
Rubano C. (2020). Pandemia da SARSCoV2 fra traumatizzazione e resilienza: aspetti adattivi e disadattivi dell’umorismo nella popolazione generale e nel personale sanitario. La Rivista Medica Italiana 3/2020.
Moja, E.A., & Vegni, E. (2000) La visita medica centrata sul paziente, Raffaello Cortina Editore, Milano.
World Health Organization, (1986). Ottawa Charter for Health Promotion. Retrived from: www.who.int/hpr/NPH/docs/ottawa_charter_hp.pdf
Charon R. (2006), Narrative Medicine: Honoring the Stories of Illness, Oxford University Press.