Salomè, come Cleopatra, la Maga Circe, Lady Macbeth… incarnano egregiamente l’idea della donna fatale, la classica “mangiatrice di uomini”, colei che con le armi della seduzione riesce a incantare e far perdere la ragione a qualsiasi uomo fin anche, a volte, ad ucciderlo (nulla a che vedere con il sano gioco della seduzione fra due potenziali partner). Un archetipo ambivalente del femminile intriso di sensualità e desiderio ma al tempo stesso di pericolosità e minaccia. È il potere femminile ricondotto unicamente alla sessualità intesa come strumento di seduzione e dominazione dell’uomo.
Nella femme fatale, antica e moderna, manca la possibilità di un rapporto paritario tra i sessi, la relazione è basata sulla prevaricazione, sull’asimmetria di poteri che inducono a ritenere la sessualità femminile fonte di pericolo e oggetto di cu diffidare. Per questo motivo la femme fatale può essere l’amante, la diva, la concubina ma mai la moglie. E per lo stesso motivo, pur rappresentando un modello di potere femminile, ribalta solo a metà la disparità tra i sessi rischiando facilmente di veder vanificata la sua portata apparentemente “rivoluzionaria”.
“Chi mi vede nuda e senza veli,
vede la luna, il sole, le stelle ed il cielo.
Sono, caro sapiente, così dotta in voluttà,
quando fra le braccia temute soffoco un uomo,
o quando, timida e libertina, fragile e vigorosa, abbandono ai suoi morsi il mio seno,
che, su questi materassi turbati,
impotenti gli angeli si dannerebbero per me.”
(Charles Baudelaire – Les Métamorphoses du vampire)
Salomè come modello della Femme fatale
Salomè è uno dei primi modelli di femme fatale, la ritroviamo nei Vangeli di Marco e Matteo, ma la sua storia è stata ripresa sia nella letteratura, nel teatro (Oscar Wilde la raccontò nell’omonima tragedia) e nell’arte (si veda l’opera Salomè del Battistello). Si tratta della storia di una fanciulla di suprema bellezza e sensualità che causò la morte di Giovanni Battista poiché all’ordine omicida di lei nessuno osò ribellarsi. Secondo la versione di Oscar Wilde, lo sventurato profeta rifiutò le avances della donna che dunque ordinò la decapitazione di lui ed ebbe così la possibilità di baciarlo a suo piacimento dopo essersi fatta servire la sua testa su un piatto d’argento.
La storia di Salomè è una perfetta metafora del cliché di ogni donna fatale che risulti tale non già fisicamente ma psicologicamente assoggettando gli uomini al suo potere. Ritroviamo questo modello del femminile a partire dal periodo della belle époque e nel decadentismo quando man mano si afferma nel teatro il personaggio della “seconda” donna: colei che recita appunto il ruolo tanto libertino, quanto ambivalente, dell’amante, dell’“altra” rispetto alla più tradizionale e canonica moglie.
La femme fatale nell’arte, nella letteratura e nel teatro è un femminile che non nasconde ma ostenta la propria sessualità arrivando a poter esercitare, grazie ad essa, un potere sull’animo maschile; un potere altrimenti per lo più precluso alle donne nella società a cavallo fra ‘800 e ‘900. Ma la donna fatale può essere tale solo rimanendo ai margini della società – la chiesa arrivò addirittura a condannare l’esercizio dell’arte teatrale per le donne – traendo da questo la propria libertà e forza.
Leggi anche —> Le dee dentro le donne, chi sono e perché possono cambiarci la vita
Da Eleonora Duse alla Locandiera: l’emancipazione della femme fatale
Il cinema, a cominciare dal cinema muto, assorbì il modello della femme fatale: nacquero così le famose “dive” – di cui Eleonora Duse è forse la più nota – coloro che potevano essere fatali tanto sullo schermo quanto nella vita. Erano infatti le uniche donne ad essere in grado non solo di lavorare, ma di mantenersi da sole con lauti compensi rendendosi del tutto indipendenti economicamente dal matrimonio e dall’uomo. Il loro gioco di seduzione era qualcosa che le caratterizzava sia nel lavoro che nella vita privata senza mai veramente condurle entro gli angusti perimetri del matrimonio. La letteratura femminista ha tuttavia, almeno in una certa parte, dissentito da questo riconoscendo sì l’emancipazione e l’autonomia delle dive del secolo scorso, ma non mancando anche di sottolineare l’ambivalenza e la contraddittorietà di molte di loro per le quali calcare le scene sembrava a lungo andare rappresentare in realtà solo un trampolino di lancio per un più tradizionale matrimonio. Anche la Locandiera di Goldoni, in fondo, finisce per sposarsi, seppur scegliendo oculatamente un uomo che non porrà a rischio alla propria libertà. Ma è davvero questo che rende ambivalente la femme fatale? È davvero il matrimonio a rappresentare la questione più importante? Nei primi del ‘900 forse sì… Ma oggi?
Leggi anche —> Streghe: la femminilità messa al rogo
La femme fatale nella pubblicità
Se nei secoli scorsi il matrimonio rappresentava spesso l’unica via che consentisse alle donne di avere una posizione sociale e una rendita economica, oggi questo non è ovviamente attuale eppure lo stereotipo della femme fatale è ancora presente nella nostra cultura forse più di quanto non ci aspetteremmo. A partire dal ‘900 si è andato affermando un modello di emancipazione femminile che è anche in parte passato attraverso la rivendicazione della sessualità della donna come “arma” di potere sull’uomo.
Un’arma a doppio taglio questa poiché la sessualizzazione e l’oggettivazione del corpo femminile è ancora parte preponderante dei modelli veicolati per esigenze di marketing: il corpo femminile “vende” e viene usato e pubblicizzato in maniera pressoché onnipresente per commercializzare qualunque tipo di prodotto, comprese le competizioni sportive dove spesso le atlete indossano abiti succinti in netto contrasto con l’abbigliamento dei loro colleghi maschi.
Ridurre il potere del femminile alla seduzione rischierebbe dunque di trasformarsi nel suo contrario e di non lasciare spazio alla donna per essere apprezzata per la sua competenza, personalità, capacità, per essere considerata in quanto persona indipendentemente dal suo genere di appartenenza. Ancora troppo spesso, sia come uomini che come donne, si è intrisi inconsapevolmente di stereotipi che riconducono una donna – a prescindere dal suo ruolo e funzione in un determinato contesto – alla sua potenziale seduttività: un “arma” che in passato le ha consentito una libertà altrimenti impensabile e che oggi rischia invece di ritorcersi contro quella stessa emancipazione che le dive di inizio ‘900 avevano acquisito.
“L’uomo è definito come essere umano e la donna come femmina; ogni volta che si comporta da essere umano si dice che imiti il maschio.”
(Simone de Beauvoir)
Leggi anche —> Donne che corrono coi lupi. Un vero libro iniziatico
Cristina Rubano