Ricordo ancora con un certo disagio il cappello d’asino che la maestra delle elementari ci faceva portare davanti a tutta la classe quando rispondevamo in maniera errata alle sue domande. Il malcapitato di turno, tra cui anche la sottoscritta, si ritrovava poi ad essere oggetto di scherno fino alla campanella. Ma chi ha portato quel cappello lo sa: non ce se ne libera mai del tutto. Le orecchie d’asino rimangono lì, sopra la testa; l’eco delle risate e le dita puntate potranno di certo sfumare col tempo, ma ne rimane sempre una traccia. Rimane la paura di sbagliare di nuovo, ogni giorno. E questa paura rimane anche quando si diventa adulti.
Correggere è un compito difficile che richiede sensibilità, compassione, saggezza, capacità di comprendere l’altro, perché è un’azione che mira a guidare, a mostrare il cammino più opportuno per superare un errore, facendo affidamento alle indicazioni ricevute e alle risorse interiori o apprese. La correzione richiede delicatezza e empatia perché l’impronta che lascia quando è rivolta alla persona invece che all’errore in sé è indelebile e può minare l’autostima di una persona; definire una persona sulla base dei suoi errori è disdicevole: una persona non è sbagliata, può commettere degli errori. L’errore non può definire l’essenza di una persona, può descrivere le sue azioni.
L’approccio all’errore può definire la solidità della nostra autostima
Se i complimenti e gli apprezzamenti possono aiutare a forgiare un’autostima sufficiente, ciò che può renderla stabile, solida, e quindi funzionale, è l’approccio all’errore. Ma questo approccio può essere vissuto in maniera ottimale solo grazie a chi è nella condizione di guidare e correggere con gentilezza. Perché se prendere coscienza di ciò che è sbagliato è fondamentale per migliorare, sentirsi invece stigmatizzati o umiliati può minare l’ equilibrio interiore e la capacità di chiunque a svolgere un compito e, in età adulta, può dissuaderlo da prendere l’iniziativa o farsi carico di certe mansioni, perché accompagnate da responsabilità troppo gravose.
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Chi si sente incapace di agire in modo corretto raramente si mostrerà in prima linea, anzi, tenderà a rimanere dietro le quinte e a trascorrere molto del suo tempo senza destare l’attenzione degli altri. Preferirà rimanere invisibile, e le sue doti, le sue qualità e i suoi talenti rimarranno nascosti a tutti, e nella maggior parte dei casi, pure a se stesso.
Saper correggere con gentilezza è un segno di maturità interiore
Chi ha il compito di insegnare si mette al servizio dell’altro, lo guida, gli trasmette il suo sapere. Purtroppo, rivestire un tale ruolo può portare a sentirsi in una posizione di superiorità, che potrebbe portare a proiettare sull’altro le proprie debolezze e aspetti non accettati. È così che ritroviamo alcuni genitori punire duramente i figli che commettono gli stessi errori di loro.
Porre rimedio ad un aspetto di sé diventa di colpo più accessibile quando questo si trova proiettato sull’altro, perché ci permette di vederlo con maggiore distanza, senza doverlo riconoscere coscientemente come nostro. Questa dinamica può portare, in qualunque sfera relazionale e quindi non esclusivamente preclusa all’educazione, ad instaurare un atmosfera tossica basata sull’arroganza, la violenza verbale, l’abuso di potere.
Per esempio, se per alcune mie mancanze non sono riuscita a portare a termine un obiettivo e nella mia cerchia qualcuno ne mostra la capacità e commette errori simili ai miei, sarà facile per me, anche se profondamente ingiusto, puntare il dito contro di lui invece di sostenerlo ed aiutarlo nella sua difficoltà, perché, nell’interagire con lui, una parte di me si rapporterà, per proiezione, con gli aspetti interiori che non ho accettato di me e che ritengo causa del mio fallimento.
Ecco che la capacità di accompagnare una persona al di là del suo errore richiede anche di aver un rapporto sano ed equilibrato verso i nostri propri errori e fallimenti, oltre che accogliere e rispettare l’unicità dell’altro e riconoscere che il suo percorso è diverso dal nostro. Ma per riuscire a correggere in modo adeguato ed utile gli altri, occorre prima di tutto saper correggersi, accogliere i propri errori come tappe del percorso e non come “medaglie di disonore”.
Quando dicevo poco fa che le correzioni umilianti del passato ci rimangono impresse dentro in maniera indelebile, sbagliavo. Non è vero. Possiamo cancellare la memoria di quelle dita puntate verso di noi, assieme alla paura di sbagliare sempre, di non essere capace, ma per farlo occorre avere il coraggio di ri-approcciarsi ai nostri errori personali, e farlo con gentilezza, con delicatezza, con compassione. Perché l’errore fa parte della natura umana ed è un grande maestro che ci porta a migliorare. Sì, anche l’errore è prezioso. E l’errore non va cancellato, perché ci dà la misura del nostro miglioramento; è l’umiliazione che deve sparire, perché non parla di noi: parla di chi ci punta il dito contro.
“Mia madre faceva la maestra. La ricordo di sera, dopo cena, china sullo stesso tavolo dove poco prima c’erano i nostri piatti, a correggere i compiti dei suoi alunni. Non usava la penna rossa per evidenziare gli errori, li sottolineava invece con un pastello verde chiaro, come le prime timide foglie di primavera.
Una di quelle sere che non avevo sonno e mi piaceva starle accanto a leggere Topolino, le chiesi perché quel colore invece del rosso che usavano tutte le altre maestre.
Mi rispose senza alzare la testa da quei fogli :
– È che nelle cose degli altri devi entrarci in punta di piedi, specialmente quando hai il compito di correggerne gli errori. Il rosso è un urlo, un’accusa alla quale non si può replicare. Dice ‘Tu hai sbagliato!’ con il dito puntato contro. Il verde è gentile, come una piantina che cresce e per farlo ha bisogno di sostegno. Il verde non demolisce, sostiene.’
È vero, è ‘in punta di piedi’ che dovremmo correggere gli errori, i nostri compresi.”
(M. Maggio)
Sandra “Eshewa” Saporito
Autrice e operatrice in discipline bio-naturali
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