“Non è colpa mia!”… Quante volte l’abbiamo sentito, o detto, di fronte alle evidenze per evitare di sentire il peso della colpa sulle proprie spalle? Sembra proprio che prendersi le proprie responsabilità sia visto come un peso gravoso da portare, e molti fanno di tutto pur di scrollarselo di dosso; lo vediamo a tutti i livelli della nostra società: nazionale, comunitario, familiare.
Rifiutare di assumersi le proprie responsabilità si riassume in un passarsi la patata bollente buttandosi le colpe a vicenda, e invece di concentrare le proprie forze e risorse nel risolvere i problemi che loro si accumulano ad ogni passaggio di proprietà, preferiamo usarle nel risalire all’origine della colpa fino ad Adamo ed Eva.
Questa dinamica si sta allargando a macchia d’olio e tocca ogni substrato della nostra società portandoci sempre più a girarci dall’altra parte, a non agire di fronte a ciò che, ad un livello razionale ed umano, è profondamente sbagliato o ingiusto, a fare finta di nulla oppure a minimizzare i danni: si chiama disimpegno morale, e sta minacciando la nostra fragile umanità.
Il disimpegno morale: come riuscire a comportarsi male e fare sogni tranquilli
Il disimpegno morale rappresenta un insieme di meccanismi che un individuo mette in moto al livello cognitivo per liberarsi da sentimenti di autocondanna, lesivi per la sua autostima, nel momento in cui sa di infrangere le regole. Si tratta di un costrutto appreso socialmente. Il disimpegno morale è stato teorizzato dallo psicologo canadese Albert Bandura ed illustrato nel suo libro Disimpegno morale. Come facciamo il male continuando a vivere bene (Ed. Erickson, Trento 2018).
“Il ‘disimpegno morale’ è un mezzo che consente all’individuo di ‘disinnescare’ temporaneamente la sua coscienza personale mettendo in atto comportamenti inumani, o semplicemente lesivi, senza sentirsi in colpa.”
(Albert Bandura)
Le applicazioni di questo meccanismo si ritrovano nella commercializzazione senza scrupoli di prodotti dannosi per la salute, nei reati più disparati, ma il disimpegno morale si insinua anche nella nostra realtà quotidiana ogni volta che si parla di aggressioni e non di violenze, ogni volta che si colpevolizza una vittima dicendo che “Se l’è cercata!” oppure quando si deumanizza delle persone per rendere meno sconveniente (o addirittura negare) ciò che hanno subìto; si riesce così a giustificare una cattiva condotta, un’ingiustizia, senza intaccare la propria autostima continuando a pensare di essere delle persone perbene e proteggendosi da sentimenti di riprovazione.
Non si tratta quindi di una semplice critica di stampo kantiano sulla morale o l’etica ma di un reale problema di società che ci rende progressivamente sempre meno empatici, pro-attivi, umani.
8 meccanismi cognitivi per convincersi a non prenderci le nostre responsabilità
Sono stati teorizzati finora 8 meccanismi che rivelano un disimpegno morale e con i quali dobbiamo fare i conti, sia come individui che come collettività:
• Giustificazione morale: si fa appello a fini superiori per giustificare la cattiva azione. Esempio: le guerre di religione.
• Etichettamento eufemistico: si ridimensiona la violenza causata tramite le parole con le quali viene nominata. Esempio: “È solo un piccolo litigio tra marito e moglie…” mentre si tratta di grave violenza domestica.
• Confronto vantaggioso: si paragona la propria cattiva condotta ad una peggiore ancora per diminuirne l’entità. Esempio: “Sii contento, ai miei tempi mio padre usava la cintura!”.
• Dislocamento della responsabilità: si attribuisce la responsabilità ad un terzo esterno facendo derivare la propria cattiva condotta come conseguente da esso. Esempio: “ Non possiamo farci nulla, è colpa della gestione precedente!”.
• Diffusione della responsabilità: si rifiuta la propria fetta di responsabilità perché la colpa è di tutti. Esempio: l’inquinamento.
• Distorsione delle conseguenze: si ignora o minimizza la gravità della cattiva condotta ignorando consapevolmente le conseguenze. Esempio: “Non succede nulla di grave se non allaccio la cintura al piccolo, facciamo poca strada.”
• Deumanizzazione: si nega alla vittima quei sentimenti umani che farebbe nascere un senso di colpa nei suoi confronti. Esempio: “Che se ne fanno dei diritti umani se vivono come degli animali?”.
• Attribuzione di colpa: ci si convince che la vittima si è meritata l’offesa. Esempio: “Se l’è cercata, non doveva vestirsi così!”.
Tutti questi meccanismi che sembrano in un primo momento evitarci di metterci in cattiva luce ci trasformano in persone sempre più irresponsabili, inaffidabili, fino a spingerci a comportarci in maniera disumana.
Dove c’è senso di responsabilità, non c’è senso di colpa
Purtroppo, deresponsabilizzarsi non richiede nessun sforzo ma ci porta inesorabilmente verso un peggioramento della società; è utopico pensare che riusciremo a rettificare la rotta senza intervenire, senza agire concretamente già al livello individuale.
Pensare che in qualche modo qualcuno si occuperà delle conseguenze delle nostre azioni al nostro posto rivela un comportamento infantile ed immaturo. Invece se con coscienza ognuno di noi riconosce, già nel suo piccolo, le sue responsabilità senza girarsi dall’altra parte, se ognuno ha il coraggio di agire concretamente per risolvere i problemi che derivano dai suoi errori, nessuno si sentirà in colpa o proverà vergogna perché avrà agito in maniera matura e consapevole. Nessuno si sente in colpa per aver rimediato ad un proprio errore: rimediare è una prova di onesta, di maturità e di profonda umanità.
Il senso di responsabilità è sempre accompagnato da un’azione riparatrice, il senso di colpa, dalla vergogna.
“Dare la colpa ad altri è un piccolo e pulito meccanismo che puoi usare ogni volta che non vuoi prenderti la responsabilità per qualcosa nella tua vita. Usalo ed eviterai tutti i rischi e impedirai a te stesso di crescere.”
(Wayne Dyer)
Sandra “Eshewa” Saporito
Autrice e operatrice in Discipline Bio-Naturali
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