Ci occupiamo in questo articolo di un tema che troppo spesso è dimenticato, perfino tra i vegetariani e gli animalisti
I pesci, poveri esseri che spesso non sono nemmeno considerati “animali”, e occupano uno dei gradini più bassi nella scala dell’umana compassione.
La prova di tale bassa considerazione è che non si dice mai “i pesci”, ma “il pesce”. Un nome collettivo, che li priva della loro individualità.
Per giustificarne il consumo, rifacendosi ad una vaga descrizione fornita da Wikipedia, alcuni non hanno neppure il coraggio di chiamare “carne” i loro tessuti. Forse per nascondere un senso di colpa che deriva dall’osservanza Cristiana del non mangiar carne al venerdì. Se il pesce non è carne, il devoto ne può dunque mangiare tranquillamente; beato lui!
Ma cos’hanno di diverso dagli altri animali? I pesci non provano forse dolore e sofferenza?
Molti di loro hanno sistema nervoso complesso; e alcuni, come il polpo, sono particolarmente intelligenti e capaci di compiere attività elaborate. Studi recentissimi hanno stabilito che le facoltà cerebrali nei pesci sono molto più complesse di quanto immaginiamo, e che provono dolore come proprio come noi. Eppure si fa finta di ignorare questa realtà, e il trattamento è sempre più brutale ed orribile rispetto agli animali terrestri, che prima della macellazione vengono “almeno” storditi.
Morti che non fanno scalpore, una tortura senza voce.
Facciamo un giro in una pescheria, qualsiasi. Le specie esposte vive, in ghiaccio ma senz’acqua sono veramente tante: dagli astici, ai dentici, alle aragoste alle anguille passando dai granchi. E questo trattamento è un vanto per il venditore che invita a toccarlo “vedete che è pesce fresco?”.
Bene, allora va acquistato, e bollito ancora vivo.
Il destino dei pesci nella pescheria può far testo, perchè è un’esperienza facile da fare. Ma proviamo ad immaginare cosa accade nel mondo, dove si pescano 80-90 milioni di tonnellate all’anno di questi esseri.
Quando il “prodotto” viene issato a bordo del peschereccio, e ancor prima di morire d’asfissia , alcuni organi interni esplodono letteralmente, a causa della decompressione..
E sapete che un terzo del pescato viene ributtato in mare perché “di scarto”, in quanto appartiene a specie considerate non commestibili, o non consentite dalla legge? Ributtato in mare, ma non vivo. E comunque le reti a strascico rastrellano tutto e trasformano i fondali marini in deserti.
Un’altra buona parte della fauna ittica mondiale è in sofferenza a causa della distruzione ambientale dell’eco sistema perpetrata dallo sfruttamento immane, che sta distruggendo le specie, ma a volte anche ogni forma di vita.
Oltre a quello che si preleva dal mare, si va diffondendo sempre di più l’acquacoltura, cioè l’allevamento intensivo, in cui questi animali vengono tenuti in spazi ristrettissimi, dove soffrono per lo stress enorme. Secondo il prof. Ettore Tibaldi, di Slow Food e docente di zoologia dell’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo e Colorno, “Il benessere negli allevamenti intensivi è impossibile, sia in terra sia in acqua”.
Il professore racconta infatti di aver visitato vasche di gamberetti in Thailandia così ricolme di gamberi da esigere la somministrazione in acqua di antibiotici, vitaminici, preparati contro la formazione di schiume, antisettici e disinfettanti fino a rendere, nel giro di pochi anni, inabitabili e quindi inutilizzabili le vasche tutte scavate all’interno di un ecosistema prezioso come la foresta a mangrovie. “La superficie occupata dalla vasca non è più riconquistata alla vita della foresta per almeno una trentina d’anni“.
Un altro “spreco imperdonabile”, usando le parole di Tibaldi, è la gestione degli alimenti utilizzati nel ciclo produttivo dei pesci d’acquacoltura. “Si pescano pesci per produrre farina di pesce che è utilizzata per nutrire altri pesci”. Questo è ovviamente un paradosso: si cerca di diminuire l’impatto ambientale di un’attività (la pesca) sostituendola con un’altra (l’acquacoltura) che, direttamente o indirettamente, stressa ancora di più gli ecosistemi (www.slowfood.it).
Insomma una serie di problematiche etiche ed ambientali enormi, che trova spazio solo nei siti di alcune associazioni internazionali come Animal Equality, che hanno fatto della lotta al maltrattamento di tutti i tipi di animali una battaglia senza tregua.
Per alcuni ecologisti il disinteresse per i pesci come animali può essere spiegato dalla loro incapacità ad interagire, essendo muti. Ma se madre natura non ha dato loro la parola, non significa che siano degli oggetti.
Tuttavia, c’è una bella differenza tra il vedere un bel animaletto, e un freddo pesce! Il pesce non è tenero e morbido come un coniglietto o un piccolo beagle, ma questo non vuol dire che non provi dolore.
Animal Equity si chiede: “Perché ci scandalizziamo, giustamente, per i maltrattamenti perpetrati ai danni dei cani di Green Hill e poi siamo indifferenti alle mattanze, come quella di Carloforte (Cagliari) che è una tonnara che in una sola volta uccide 5/6 mila esemplari per asfissia e dissanguamento?”. Evidentemente perchè i pesci sono lontani; molto lontani dal nostro contesto quotidiano, e perciò difficili da amare.
Non solo i tonni, ma ogni tipo di pesce in realtà prova dolore esattamente come ogni altro tipo d’animale sottoposto a torture strazianti.
Studi moderni hanno evidenziato come i pesci teleostei posseggano recettori del dolore simili a quelli dei vertebrati superiori. Le ricerche hanno anche mostrato che la neurofisiologia e il comportamento dei pesci sono alterati in presenza di stimoli dannosi.
Lorenzo Guaia