Nell’articolo precedente abbiamo visto che l’etimologia è dalla parte di chi parla di “paella vegetariana” o di “sushi vegano”, dato che molte parole legate al cibo non derivano di per sè dall’alimento o dall’animale, ma dalla forma, la consistenza o il sapore.
Perfettamente corretto dunque parlare di LATTE di mandorle, o di FORMAGGIO vegetale, di RAGOUT di lenticchie.
Per altri alimenti però le cose si complicano…
PAROLE CHE NON SI DOVREBBERO USARE PER PIATTI VEGANI
Pare ovvio che parole il cui nome deriva da una parte di un animale, o dall’animale intero, non possano rappresentare un piatto privo di parti animali.
Ecco quali parole sarebbe forse meglio evitare nei menù vegani:
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SALSA TONNE’ = da tonno –
Alternativa vegetale? Salsa Stonnata! (Si fa con crema di hummus e capperi ed è fenomenale!)
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PECORINO = dal latte di pecora, con cui questo formaggio è fatto
Alternativa vegetale? Il Vegrino! Anche questo viene squisito, fatto con latte di soia e limone.
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ZAMPONE = dalla parola zampa (del maiale ucciso)
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BISTECCA = dall’inglese “beef steak”, storpiato poi in italiano come bistecca, significa letteralmente “carne di manzo arrostita”
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FOIS GRAS = dal francese “fegato grasso” di un’oca
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STRACCHINO = dal dialetto lombardo “strac”, stanco, dato che questo formaggio veniva fatto con le mucche stanche (“strache”) che erano state portate giù dalle malghe di montagna, per essere munte, ed erano quindi esauste per il lungo viaggio, dopo il parto.
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COTOLETTA e COSTINE = da “costole”. La costina era la parte di carne che restava attaccata alle ossa del piccolo animale ucciso, spesso un agnello o una pecora.
Alternativa vegetale? Per esempio sono ottime le “cotolanzane”, delle fettine di melanzane cotte e poi impanate e fritte. Una vera delizia a prova di onnivoro (come quelle squisite della foto di Elena Pelò). -
SALSICCIA = parola nata dall’unione di “sale” e “ciccia”, e cioè “carne salata” quindi niente salsicce vegane!!
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COTECHINO = da “cotica/cotenna”, cioè la pelle dell’animale ucciso. Dal latino “cutica”, da cui deriva il vocabolo “cute”.
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BURRO = Dal latino “butyrum”, a sua volta dal greco “bouturon”, dove “bou” significava “bovino, mucca”, e “turon” la proteina “tirosina”. In questo senso quindi non è corretto parlare di “burro vegetale”. Detto questo, nel tempo si è persa l’associazione con la parola “vacca”, tanto che questa parola è da tempi immemori utilizzata per descrivere cibi dalla composizione molto grassa, morbida, unta e scivolosa.
Per esempio, il “burro nero” è da sempre il nome dato al letame di stalla dagli allevatori.
Negli Stati Uniti, il “burro di noccioline” è normalmente utilizzato per descrivere il grasso che si ottiene da questi frutti secchi, mentre la parola “burro di cacao” descrive la parte grassa e morbida di questo frutto (e nessuno si è mai sognato di dire che non sia corretto).
Tra l’altro, esistono varie piante tropicali chiamate “albero del burro” perchè dai loro semi si ricavano sostanze simili al burro. Un esempio per tutti? Il famoso burro di karitè.
Decidete voi quindi se sia scorretto parlare di “burro di mandorle” o “burro di arachidi” (come quello nella foto qui in alto, della blogger vegana Roberta Nini), e altri burri vegetali di alimenti grassi e proteici, come quello di cocco.
Qui entriamo nel campo delle parole “neutre”…
PAROLE NEUTRE: A VOI LA SCELTA
Esistono alcuni alimenti invece il cui nome deriva da una città, o dal nome di persona che per primo li ha creati. In questi casi, è abbastanza indifferente mantenere l’originale o trovare un neologismo.
Vediamo qualche esempio:
Se non l’avete mai provata, è tempo di farlo!
Un minuto e sarà vostra, senza impazzire!
SALAME = Anche se questa parola deriva da “SALE”, ed è utilizzata per descrivere della carne conservata a lungo (sotto sale appunto), è ormai altrettanto tradizionale parlare di “salame” anche quando la FORMA di un certo alimento ricorda i salumi stagionati. Nessuno si lamenta quando una massaia prepara un “salame di cioccolato”, e tutti capiamo di cosa si parla.
Non pare scorretto quindi parlare di salame di cioccolato, o di altri salumi vegetali. Per esempio, quello nella foto è un “salame di fichi e mandorle”, vegano per tradizione millenaria. Questo salame si cucinava a inizio autunno nel medioevo, e lo si portava nella bisaccia durante un lungo viaggio, dato che si conservava a lungo ed era molto nutriente.
HAMBURGER = Molti vegani preferiscono parlare di “burger vegani”, togliendo il prefisso “ham”, che in inglese significa “prosciutto” e lasciando il più neutro “burger”. Non ha molto senso fare così però. Hamburger non deriva infatti da HAM = prosciutto, ma dalla città di Amburgo, o “Hamburg”!
Verso la fine del 1800 era famosa l’abitudine di questi cittadini presso il porto di servire della carne grigliata in mezzo a due fette di pane.
I viaggiatori hanno poi portato questa parola con loro anche in America.
Quello che quindi viene associato alla parola “Hamburger” è sempre del pane al cui interno si trova qualcosa di proteico e non dolce da mangiare.
Si può quindi a diritto parlare di un “hamburger vegano”, e a maggior ragione di “burger” vegetali.
La città di Amburgo non crediamo si offenderebbe…
ETIMOLOGICAMENTE CORRETTE, MA LA LEGGE DICE “NO”!
PANETTONE = dalla parola “pane di grande formato”, si potrebbe quindi benissimo utilizzare per i panettoni vegani. Purtroppo però è stato deciso per legge, dal 2005, che in Italia la denominazione «panettone» venga riservata al prodotto dolciario da forno a pasta morbida, ottenuto per fermentazione naturale da pasta acida, il cui impasto contenga tutti i seguenti ingredienti:
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a) farina di frumento;
b) zucchero;
c) uova di gallina di categoria «A» o tuorlo d’uovo, o entrambi, in quantita’ tali da garantire non meno del quattro per cento in tuorlo;
d) materia grassa butirrica in quantità non inferiore al sedici per cento;
e) uvetta e scorze di agrumi canditi, in quantità non inferiore al venti per cento;
f) lievito naturale costituito da pasta acida;
g) sale.
E per quanto sia in facoltà del produttore aggiungere al panettone farciture, decorazioni e frutta, nonchè altri ingredienti caratterizzanti, viene specificato che questo si puo’ fare “ad eccezione di altri grassi diversi dal burro.”
Se qualcuno ha mai assaggiato un panettone vegano di qualità (come quello nella foto) saprà che non vi è differenza con quelli artigianali ricchi di burro e uova (anzi, è meno pesante e se ne possono mangiare più fette senza che resti sullo stomaco!).
LATTE = Questa parola non significa assolutamente “secrezione da mammella di mucca”. La sua origine deriva dalla parola indoeuropea GLACTEM (ancora oggi in greco GAL significa latte).
A sua volta GLACTEM ha un’origine in sanscrito: “GAL”, una radice onomatopeica che ricordava il suono di un lattante quando beve il latte della madre. Praticamente il nostro “Glu – Glu – Glu”.
Letteralmente questa parola significa infatti “deGLUtire”.
“LATTE” è quindi prima di tutto la bevanda ed il nutrimento liquido che per primo consumiamo fin da neonati: quello di nostra mamma.
Sarebbe quindi corretto specificare ogni volta di quale altro latte si stia parlando, se non è quello della mamma: “latte di mucca”, “latte di pecora”, “latte di mandorle” e così via.
Purtroppo invece, quando si parla di “latte alimentare” in Italia (e forse SOLO in Italia!) ci si può riferire PER LEGGE solo a quello VACCINO, cioè di mucca.
La definizione giuridica di “LATTE” è infatti la seguente: “il prodotto ottenuto dalla mungitura regolare, ininterrotta e completa delle mammelle di animali in buono stato di salute e nutrizione“.
Se c’è scritto “latte” su una confezione, si intenderà automaticamente quello di una mucca (latte vaccino), mentre per tutti gli altri animali, bisogna per legge specificare la provenienza (latte di pecora ecc.).
Per via di questa assurda legge che protegge i più potenti e il loro sfruttamento degli animali più buoni che esistano in natura, i produttori di latte vegetale, come quello antichissimo di mandorle, tendono ad utilizzare la parola”BEVANDA”.
Se quindi cercate del “latte di riso”, ma trovate solo delle “bevande di riso”, tranquille. E’ la stessa cosa…
CONCLUDENDO: “UNA ROSA, CON QUALSIASI ALTRO NOME…”
Rimangono altre parole, soprattutto per i dolci più tradizionali come il TIRAMISU’ o la PASTIERA, e tante altre, che rimangono in dubbio…
Cosa fare in questi casi? Non sempre se ne conosce la vera ricetta originale.
In molti casi, le versioni regionali sono molto diverse tra loro: alcune non prevedevano l’utilizzo di alimenti di origine animali come le uova, o ve ne sono versioni “di magro” che ne facevano tranquillamente a meno fin dal medioevo.
In altri casi, la versione originale era vegetale, ma per ricorrenze importanti e fare “bella figura” venivano aggiunti ingredienti animali dagli chef prezzolati di turno, e sono queste poi le ricette che sono rimaste alla storia.
In questi casi quindi la scelta è discutibile in entrambi i casi.
C’è però anche qui una scelta etica che possiamo fare, senza sbagliarci mai…
Dopo tutto, agli animali “da reddito” importa poco come decidiamo di chiamare un tiramisù senza uova, senza latte e senza biscotti pieni di burro.
Che il nostro sia un semplice “tiramisù vegano”, o un “vegamisù”, che noi si compri bevande vegetali o latte vegetale, agli animali “da reddito” importa solo che passi forte e chiaro il messaggio che si possono fare dei dolci e dei piatti squisiti, buonissimi e tradizionali, anche senza doverli sequestrare, torturare a vita, ed uccidere ancora cuccioli, per rubare le loro secrezioni, il loro latte, le loro uova.
Scegliete voi la parola da dare ai vostri piatti, ma continuate a far passare questo messaggio…
Aida Vittoria Eltanin, autrice del ricettario vegano “L’Arca di Eva & Friends” e “La Salute di Eva”