“Ci chiamano” Millennials, Generazione Y, Echo Boomers. Molti ci definiscono narcisisti, viziati, accidiosi, perennemente insoddisfatti a livello professionale. Altri ci esaltano. Siamo i ragazzi nati tra i primissimi anni 80′ e i primi anni 2000, più o meno. Cresciuti a merendine e tecnologia. Prima generazione “vecchia” che ha dimestichezza con la tecnologia digitale e la usa in modo costante.
Siamo la generazione che precede la Generazione Z, dei nati dopo il 2000, e segue la generazione X, composta dagli individui nati tra il 1960 e il 1980. Negli USA raggiungiamo circa gli 80 milioni e nella sola Italia, 11,2 milioni di cui il 76% connessi ad Internet. Ci definiscono globali ma appassionati del locale, collaborativi, digitali, desiderosi di esprimere noi stessi con autenticità.
Atteggiamento che si riflette negli acquisti: preferiamo prodotti che rispecchino i nostri valori, pubblicizzati attraverso spot non troppo forzati ma basati su contenuti intelligenti e ingaggianti. Tant’è che, stando alle statistiche, solo l’1% dei Millennials sarebbe influenzato dalla pubblicità negli acquisti, preferendole blog di settore, riviste, libri. E anche con le aziende desideriamo un dialogo diretto, magari tramite i social. Per quanto riguarda l’utilizzo di Internet, il nostro target sembrerebbe usarlo principalmente per risolvere esigenze quotidiane legate allo studio o al lavoro, per intrattenimento e per trovare informazioni su argomenti di proprio interesse.
Generazioni a confronto
Trovo estremamente riduttive le etichette tese a esaltarci o sminuirci perché qualsiasi generazione ha pregi e difetti. Penso a mio padre e a molti dei suoi coetanei, quelli che negli anni 80′, quando noi Millennials ci sfamavamo a merendine e cartoon giapponesi, si davano da fare per garantirci stili di vita comodi. Mio padre e i suoi coetanei, ognuno a modo proprio, perseguivano obiettivi concreti e precisi: la famiglia, il successo nel lavoro o d’altra parte il posto fisso, il benessere economico che garantisse una vita confortevole e un futuro prospero ai figli.
E poi c’erano quelli che si impegnavano a raggiungere il successo dando tutto in nome della carriera, o quelli che lottavano contro le ingiustizie desiderosi di cambiare le cose. Qualunque obiettivo perseguissero, davano l’impressione di essere combattivi, determinati, decisi, forti ma anche sensibili e accoglienti, perlomeno in apparenza. Per come la vedo io, la loro era una generazione del fare per la quale “non prendere posizione”, “non avere un obiettivo”, “non avere un lavoro” era una vergogna. Tant’è che ancora oggi la prima cosa che ti chiedono quando ci parli, è “cosa fai?”, “dove lavori”, “di cosa ti occupi?”.
Ecco, io credo che i Millennials nati nel benessere, viziati e coccolati, convinti che i sogni si possano esaudire anche per merito di genitori di quel tipo, percepiscano dentro di sé che “essere ciò che si fa” non basta. Desiderano capovolgere il paradigma e “fare ciò che sono”. Non è un passaggio automatico. Richiede un coraggio diverso. Una sensibilità diversa. E come sempre c’è chi riesce a fare il salto di qualità, chi fatica di più. Come quei Millennials, i primi, che volgono lo sguardo all’estero partendo senza biglietto di ritorno. O che rimangono mettendosi in gioco, osando strade non battute.
Difficile, certo, ma potenzialmente più appagante del posto fisso. Perché non poter contare su contratti a lungo termine dà il coraggio di reinventarsi. E a ciò si aggiunge la tecnologia che ad oggi i Millennials usano per il 70% della giornata, complice il fatto che spesso lavorano sul web. Ma anche nel tempo libero sembrano preferire il pc alla tv. Ci guardano film in streaming, organizzano viaggi appoggiandosi ai servizi di sharing economy con prenotazioni online, comunicano via social, chattano. I contro? Una tale presenza online secondo alcuni va a discapito delle relazioni dal vivo e della verità nei rapporti interpersonali, condizionati dalla percezione virtuale.
Per quanto riguarda il lavoro, si va dicendo che i Millennials siano una generazione perennemente insoddisfatta, eppure stando ad alcune ricerche condotte nel 2010, sono risultati meno frustrati a livello professionale delle generazioni precedenti e i più abili a far progredire la carriera in modo etico.
E l’individualismo? Sì, sembra un tratto comune della nostra generazione tant’è che spesso preferiamo lavori solitari a quelli di squadra ma secondo alcune ricerche ciò dipenderebbe, almeno in parte, dal ritratto scoraggiante che tv e altri mezzi di comunicazione offrono dei nostri coetanei.
E’ inevitabile che ci sia un’altra faccia dei Millennials, il cui ritratto è forse meno “nobile” e più corrispondente a quello offerto dai mezzi di comunicazione, ma non è il solo. E’ importante ricordarlo quando ci descrivono come scansafatiche, viziati, poco disposti a metterci in gioco, estremamente velleitari, schizzinosi. Perché se a volte è innegabile, in altri casi non lo è affatto. Molti Millennials rifiutano posti d’oro, molti altri accettano lavori sottopagati, anche per anni, pur di portare avanti i propri progetti e le proprie ambizioni.
Comunque sia, anziché sparare accuse o cercare capi d’accusa, i genitori, non sarebbe più sensato interrogarsi sul perché di uno scoraggiamento diffuso, individuando soluzioni e percorsi di accompagnamento per favorire, in modo intelligente, l’inserimento dei Millennials “scansafatiche” nel mondo del lavoro?
Laura De Rosa
yinyangtherapy