Cos’è la felicità? Il dizionario la descrive come “il sentimento di chi è felice”, “stato di beatitudine“. Ma le risposte non sono univoche perché il concetto sfugge alle definizioni cambiando a seconda del contesto culturale, degli individui, delle epoche. Oggigiorno gira voce sia sinonimo di benessere, condizione in cui prevalgono serenità, fiducia in se stessi, capacità di affrontare la vita con spirito positivo. In effetti le emozioni positive sono l’elemento portante della società votata al benessere.
Ma per essere felici è sufficiente pensare positivo rigettando le emozioni cosiddette negative? E va da sè le persone negative? Secondo la legge di attrazione più o meno sì perché se siamo positivi, puliti, cristallini, ottimisti attraiamo individui e situazioni sulla stessa lunghezza d’onda. Vale anche al contrario. Non voglio sfatare il mito della legge di attrazione perché probabilmente qualcosa di vero c’è ma stento a credere che l’Universo, nella sua meravigliosa complessità, si riduca a così poco.
La felicità tra filosofia e psicologia
La felicità secondo Zygmunt Bauman “non significa una vita priva di problemi. Una vita felice si ottiene superando le difficoltà. Fronteggiando i problemi, risolvendoli, accettando la sfida. Accetti una sfida, fai del tuo meglio e ti impegni a superarla. E poi sperimenti la felicità nel momento in cui capisci di aver tenuto testa alle difficoltà e al destino.” Secondo il sociologo e filosofo polacco è quindi una scelta che non dipende dalla capacità di allontanare gli eventi negativi, semmai dal come li affrontiamo.
Le emozioni negative di per sé potrebbero anche aiutarci, dipende penso da quanto potere esercitano su di noi. E’ ovvio che vedere tutto nero sia di intralcio alla felicità. Tuttavia fingere che le emozioni ritenute spiacevoli non esistano o tentare di allontanarle per paura dei loro messaggi, a volte scomodi, è un’assurdità. La società del benessere ci suggerisce che è importante “ascoltarsi” ma inneggia nel contempo alla positività, al bicchiere mezzo pieno in qualunque situazione. Non è forse una contraddizione? Che senso ha accogliere solo le emozioni positive e rigettare le altre? Se bussano alla nostra porta, di qualunque tipo esse siano, una ragione evidentemente c’è.
A proposito di felicità Raffaele Morelli afferma: “Noi passiamo la vita a debellare il nostro lato che mente, il nostro lato aggressivo, il nostro lato pauroso. Passiamo la vita a combattere contro qualcosa di noi, questo combattere ci rende fragili, insicuri, paurosi. La felicità viene dall’accettazione delle contraddizioni. Dal dirsi sono quella dolce e quella aggressiva. Allora quando non ho più un parere su di me, la felicità può sgorgare come un fiume… perché la felicità possa sgorgare bisogna cambiare personaggio, un solo personaggio vuole dire unilateralità, quindi una rigidità… quando una persona si dichiara buona non potrà mai essere felice perché recita.”
E prosegue: “La felicità viene dall’assenza di pensieri, dalla perdita del senso del tempo, dall’abbandonarsi alle cose come sono e dal compiere azioni spontanee. Siamo tristi caricature quando riempiamo la mente di immagini ingannevoli, quando “cerchiamo di cogliere il fiore che non c’è”. Crediamo erroneamente di dover cambiare, di dover essere simili agli altri, di poter vivere vite diverse da questa: “Se avessi…, se fossi…”. Così restiamo nell’illusione, vediamo solo fiori che non ci sono. Non guardare fuori di te, resta immerso nelle azioni che fai; in questo modo una magia irrompe nella tua vita e ti regala la felicità che viene dal fiore che non c’è, quello che sboccia dalla tua essenza interiore.”
Forzare la felicità, stando alle parole di Morelli, è inutile. Così come sforzarsi di reprimere, allontanare, censurare gli aspetti “negativi” di se stessi.
Interessante in tal senso il punto di vista di Sigmund Freud che ne “Il disagio della civiltà” affermava che l’infelicità dipendesse, fra le altre cose, dalla tendenza dell’uomo civilizzato a reprimere le pulsioni in cambio di un po’ di sicurezza: “Se la civiltà impone sacrifici tanto grandi, non solo alla sessualità ma anche all’aggressività dell’uomo, allora intendiamo meglio perché l’uomo stenti a trovare in essa la sua felicità. Di fatto l’uomo primordiale stava meglio, poiché ignorava qualsiasi restrizione pulsionale. In compenso, la sua sicurezza di godere a lungo di tale felicità era molto esigua. L’uomo civile ha barattato una parte della sua possibilità di felicità per un po’ di sicurezza”.
La felicità come sinonimo di Piacere in Epicuro
Il filosofo greco Epicuro (341 a.C. –271 a.C.) riteneva che la fonte della felicità fosse il piacere: “quando dunque diciamo che il fine ultimo è il piacere non ci riferiamo ai piaceri dei dissoluti a ai godimenti volgari, come credono alcuni che non conoscono, non apprezzano o interpretano male il nostro pensiero, ma intendiamo il non patire dolore nel corpo e il non essere turbati nell’anima”.
Epicuro suddivideva i piaceri in naturali e necessari, per esempio mangiare, naturali e non necessari, per esempio bere una bevanda diversa dall’acqua per dissetarsi, non naturali e non necessari, come la brama di successo. Riteneva che i primi portassero alla felicità duratura a differenza degli altri che erano piaceri effimeri, in grado di appagare l’uomo per poco tempo rendendolo più insoddisfatto di prima. Il saggio gode di ogni momento della propria vita come fosse l’ultimo, accontentandosi di ciò che la vita gli riserva, evitando di preoccuparsi per il futuro, diceva Epicuro.
“Non bisogna sciupare quello che si ha con il desiderio delle cose che mancano, ma riflettere sul fatto che anche ciò che si ha era prima oggetto di desiderio”.
Laura De Rosa
yinyangtherapy.it