Dire no fa bene. Quante volte l’abbiamo sentito ripetere ma la cosa più strana, forse, è che fa bene davvero. Probabilmente la maggior parte di noi si sente in colpa nel pronunciare quelle due sillabe, qualunque sia il motivo scatenante. Ma la gentilezza forzata può diventare una forma di schiavitù. Sì perché una cosa è essere gentili, un’altra rispondere sempre di sì, anche quando non ne abbiamo voglia, siamo stanchi, spossati, tristi. E’ un po’ come quando ci chiedono, “come stai?”, e per abitudine rispondiamo “bene”. E’ un’attitudine alla positività che per quanto positiva sia, rischia di trasformarsi in una gabbia dorata. Ci hanno insegnato a rispondere bene perché altrimenti sembriamo maleducati. Fino a che punto è vero?
E’ questione di dire sì quando si ha voglia di farlo e saper dire no quando non si ha voglia. Che si tratti di persone o impegni vari. Personalmente ritengo sia una questione di equilibrio. Certo che diventare musoni arrabbiati con il mondo non è un granché come soluzione, ma nemmeno dispensare sorrisi e sì solo per non scontentare nessuno. Spesso i sì detti controvoglia si accumulano da qualche parte in noi alimentando il senso di frustrazione che poi ci induce ad accusare chi, quei no, sa dirli. Più che di maleducazione, si tratta di tracciare confini che permettono di vivere meglio. C’è sempre da prestare attenzione alla tendenza opposta che, in nome del “penso solo per me”, fa grossi danni. Ma vuoi mettere donarsi perché ci si sente obbligati e farlo col cuore?
Da dove nasce la paura del no
In un articolo pubblicato su Riza si legge che spesso ci concediamo, e diciamo sì, per abitudine, trascinandoci dietro situazioni e persone che non fanno per noi solo per paura del no. Il fatto è che accusare gli altri è facile, ammettere di essere la causa dei propri mali più fastidioso: “ma se gli altri ti fanno star male, spesso è perché tu lo permetti: per qualche motivo, qualcosa in te non vuole ribellarsi. Impara allora a conoscere tutti i tuoi lati, anche quelli che non avevi il coraggio di guardare. Diventare completi è la chiave per poter stare con gli altri nel modo giusto ed evitare che ti mettano i piedi in testa.”
Essere completi significa quindi accettare tutti i lati della propria personalità e una volta fatto, sentirsi liberi di agire in base al proprio intuito, senza forzature. Far stare bene gli altri dovrebbe essere una scelta, non una schiavitù auto-imposta per timore del no. Come riuscirci? Esperti veri o presunti affermano che la strategia migliore consista nel procedere per gradi. E in effetti sembra la soluzione più sensata. D’altronde una persona poco abituata a dire di no faticherà terribilmente, nei primi tempi, a pronunciare la parolina magica e avrà bisogno di “indorare la pillola”. “Mi sostituisci domani al lavoro”. “No, mi spiace, lo farei volentieri ma ho degli impegni che non posso rimandare.” Educato e conciso. Quel che ci vuole per un no come si deve.
Perché va bene che ascoltare le esigenze altrui è importante ma questo non significa escludere completamente se stessi. Le vie di mezzo sono tutt’altro che scelte di comodo, favoriscono piuttosto l’equilibrio. Secondo quanto riporta Riza in un articolo di psicologia a tema, il nodo alla gola è uno dei sintomi più frequenti di chi ha timore di dire no perché denota la paura di esprimere ciò che si è e si vuole dire. La gola “rappresenta il ponte fra il nostro mondo interno e quello esterno, ma può diventare una strettoia che fa da “tappo” e impedisce di comunicare efficacemente il nostro modo di essere e di pensare. In questo senso il disturbo “mira” a farci prendere coscienza delle parole non dette, ci costringe a dirle.”
In ogni caso, che lo sostengano o meno gli esperti, è un dato di fatto che quando ci sentiamo bene nella nostra pelle, riusciamo a essere migliori anche nei confronti altrui e i no, come per magia, passano più inosservati. Vivere in modalità “sì” per timore del no è cosa ben diversa dall’essere positivi per scelta. E’ una schiavitù di cui spesso non siamo consapevoli e che ci illude di essere più buoni e disponibili degli altri, e per questo soggetti a sfruttamento da parte degli “approfittatori” di turno. In realtà, sebbene gli approfittatori esistano, i sì dovuti alla paura sono tutt’altro che buoni ma semplice frutto dell’insicurezza. Alla lunga questo trattenere ci comprime perché la frustrazione dovuta all’incapacità di opporsi aumenta intaccando inevitabilmente l’umore. Da cosa dipende? Abitudine, timore di essere giudicati, educazione ricevuta in famiglia, difficoltà a sostenere i conflitti che poi si riduce tutto a una sola cosa: paura di essere se stessi. Il paradosso è che chi trattiene non ottiene serenità o maggiore autenticità nei rapporti con gli altri, esattamente il contrario. Ancor più paradossale, secondo quanto riporta Riza, è il fatto che dietro questa prostrazione si nasconda, in alcuni casi, dell’egocentrismo mascherato, che non si mette in mostra ma pretende attenzioni in un modo tutto suo, contorto.
Laura De Rosa