“La meta non è un posto ma è quello che proviamo”
Quando ho sentito per la prima volta questa frase, il mio pensiero e la mia anima sono saliti su quell’aereo Icelandair, tratta Milano-Reykjavík, per volare di nuovo in Islanda. Scrivo questo articolo in prima persona perché sarebbe impossibile scindere ciò che i miei occhi hanno avuto l’opportunità di vedere, da ciò che ha fatto entusiasmare e commuovere i miei sensi; forse, attivandoli per la prima volta, mettendo in connessione il pulsare del mio cuore con quello del mondo.
Proprio lì, “lassù al centro del mondo” (come molte guide di viaggio amano poeticamente definire la sua collocazione), al centro dell’Oceano Atlantico settentrionale, si estende quest’isola di 103 000 kmq, con una popolazione di 320 000 abitanti.
Il road trip che mi ha portato con alcuni compagni d’avventura ad esplorare l’Islanda su di una macchina a noleggio cambiando alloggi ogni sera per dieci giorni a luglio, è stato un periplo dell’isola sulla strada 1 chiamata Hringvegur, l’unica strada principale che fa il giro dell’isola, con alcune deviazioni per escursioni nell’interno, come ad esempio nel Circolo D’oro. Nei chilometri e chilometri che ogni giorno abbiamo intrapreso per gli spostamenti, ero portata a chiedermi dove fossero finite le persone, dove fossero le loro case, le loro industrie, scoprendo che esse sono concentrate quasi totalmente nella capitale Reykjavík. Imbattersi in presenza umana o nelle folkloristiche case con tetto a punta, caratterizzate da una particolare ondulazione della lamiera studiata per resistere alle nevicate, era un evento sorprendente; ma l’Islanda non mi ha mai fatto sentire sola. Ogni paesaggio richiamava una sensazione e un profondo senso di appartenenza.
Ciò non è dipeso dalla presenza degli altri compagni di viaggio; anche sperduti in mezzo al nulla, l’energia degli elementi regala una sensazione di pienezza e totalità individuale e intima, con sfumature differenti per tutti. Posso assicurare che in alcuni tratti del viaggio si era davvero in mezzo al nulla, se il metro di misura è l’indole capitalista che il “tutto” sia l’attività umana, la sua frenesia, le sue costruzioni.
La pista Kjolur che taglia internamente l’Islanda dalla cascata Gulfoss al sud fin quasi ad Akureyri al nord, è stato per me l’esempio lampante. Di quei 200 km in strada sterrata, ne abbiamo percorsi solo alcune decine per le condizioni meteo non proprio favorevoli, ma ho avuto modo di capire perché lì si esercitino gli astronauti prima di partire per le loro spedizioni: un paesaggio lunare, a tratti cupo ma disperatamente affascinante. Il confronto con questo presunto “nulla” porta la mente ad interrogarsi su quale sia il reale nulla della propria vita. L’aridità del terreno, il timore che incute un percorso così difficile, conduce alla riflessione profonda su quale sia la parte arida dentro di sé da far germogliare, su quali possano essere le strade che, nonostante i conflitti, gli ostacoli da superare, valgano la pena essere intraprese. Dopo l’aridità, la vita: tappeti di lupini che hanno il viola dell’ametista e si allungano per tratti di gioia che appaiono infiniti.
L’Islanda è un viaggio di scoperta ad ogni attimo, fuori e dentro di sé. Non solo la “terra” di cui ho appena accennato, ma tutti e quattro gli elementi si espandono ed esplodono nella più inaspettata meraviglia. L’aria islandese è un vento perennemente tagliente, lunatico, capriccioso. Un compagno di viaggio di cui ti vorresti liberare ma che si impara infine ad accettare quando si arrabbia e quando si placa. Un po’ come bisognerebbe fare con le persone. L’acqua e il fuoco, gli opposti per eccellenza, interagiscono in uno scambio estremo ed armonico.
La terra è circondata dalle acque e annaffiata da spettacolari cascate come la Godafoss, tra Myvatn e Akureyri, che in linguaggio locale significa “la cascata degli dei” poiché secondo la leggenda nell’anno 1000 il parlamento decise di abbracciare la religione cristiana abbandonando il culto degli antichi e si gettarono dalla cascata tutte le loro statue.
L’Islanda, però, è un’isola vulcanica per origine, geologicamente giovane (circa 20 milioni di anni) e ancora in corso di formazione.
Acqua e fuoco sono il motore della vita islandese, che anche da un punto di vista pratico si basa sull’energia idroelettrica e geotermica; l’incontro-scontro fra i due elementi è identificato simbolicamente alla massima potenza dal ghiacciaio Vatnajökull, che con la sua superficie domina 8400 kmq, il più grande presente in Europa. Sotto la sua calotta, che arriva anche a 1 km di spessore, si trovano infatti diversi vulcani attivi, che raramente ma in modo stupefacente eruttano infilandosi per 600 m di ghiaccio.
O si prendano in considerazione i geyser di Geysir nella valle di Haukadalur per vedere in questi fiotti d’acqua bollente spinti in aria dal centro di fuoco della terra fino a 60 metri d’altezza, la potenza di un impulso, di una rabbia, di un’intuizione… Com’è umano il mondo.
Ultimo ma non meno importante fra questi pochi flash d’Islanda, che riassumono un percorso che è stato pura magia, è impossibile non ricordare il momento del “whale watching” cui ho preso parte, al largo del porto della piccola cittadina di Húsavík. A 20 chilometri dal circolo polare artico, l’incontro con le balene, la loro grazia, la leggerezza inversamente proporzionale alla loro imponenza. È uno dei momenti che ricordo con maggiore emozione, soprattutto perché il momento perfetto ha concesso l’opportunità di vederne due nuotare assieme, un evento più unico che raro, come unica è stata la sensazione di rispetto e di onore nei confronti di una natura così varia, contrastante, di una bellezza così intensa che a volte il cuore mi è sembrato non potesse contenere.
Quello in Islanda è un viaggio che permette all’uomo di sperimentare, in un angolo remoto del mondo, la forza primordiale delle origini, come luogo per ricordare di quali elementi siamo costituiti, quale sia la nostra essenza e il nostro ruolo, ospiti su un pianeta che dovremmo proteggere e preservare. Un viaggio che consente di tornare al centro del proprio essere, un modo di essere “umano”, fragile e capace di rinnovarsi, figlio della madre di tutte le madri: la natura.
Foto by Gianmario Sperotto
Chiara Pasin