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Donna che ha ucciso animali con i suoi tacchi: l'analisi di Annamaria Manzoni

Di Elena Bernabè - 29 Aprile 2012

Annamaria Manzoni, psicologa e animalista nonchè scrittrice di due saggi imperdibili sul rapporto uomo-animale (“Noi abbiamo un sogno” e “In direzione contraria”) ha analizzato dal punto di vista psicologico e sociologico un fatto di cronaca recente con al centro il maltrattamento animale. Eticamente ha il piacere di ospitare le sue significative parole ed invita tutti a riflettere.
“Sui giornali del 20 aprile: “Condannata a 4 mesi gentile signora, 40 anni e tre figli, che, seminuda e in tacchi a spillo, uccide pulcini, conigli e altri piccoli animali”.
Poi mette il tutto in rete. E così il caleidoscopio della smisurata varietà di situazioni ideate dalla mente umana è a disposizione di chiunque ne condivida il piacere perverso e di chi, bypassando la ripugnanza istintiva, prova nonostante tutto a cercare il bandolo della matassa. Inoltrandosi nei meandri dei contesti in cui tutto ha luogo, risulta ahimè chiaro non trattarsi di un comportamento eccezionale come si vorrebbe, ma collegato a situazioni che gravitano intorno ad una forma particolare di piacere sessuale, offerto e condiviso, cercato e raggiunto attraverso la tortura e l’uccisione di piccoli e meno piccoli animali.
Si tratta del cosiddetto crush fetish, una sorta di feticismo da schiacciamento, moderna perversione in formato soft e hard, a seconda che in gioco vi siano insetti, lumache, pesciolini, calpestati a morte, o invece oche, conigli, galline seviziati e bruciati vivi. Ciò allo scopo dichiarato di far godere chi guarda, come bene documentano i commenti nel forum degli adepti, da cui si apprende dell’esistenza di veri e propri collezionisti, possessori di un’infinita gamma di video, mai sufficienti a soddisfare il bisogno di eccitazione che la vista di animali martoriati e uccisi produce.
L’immagine della scarpa femminile con tacco a spillo che schiaccia una piccola bestiola richiama puntualmente quella del tutto analoga contenuta in un saggio sulla sessualità scritto una ventina di anni fa dallo psicologo Francesco Parenti con la differenza che, in quel disegno, ad essere schiacciata sotto la punta dello spillo è la testa di un uomo con le mani incatenate.
Quale comune denominatore lega l’uomo reso debole e indifeso all’animale per sua natura debole e indifeso rispetto all’essere umano? Che ci fanno l’uno e l’altro sotto la punta aguzza del tacco femminile? Entrambi sono chiamati a soddisfare il sadismo, vale a dire il piacere sessuale sperimentato nel provocare dolore e sofferenza, tendenza nobilitata, per lo meno a livello letterario, alla fine del 1700 grazie alle esternazioni del divino marchese de Sade.
Tutto normale? Per quanto liberamente se ne possa parlare e anche in un’epoca disinibita e tollerante come l’attuale, che ostenta in vetrine non tanto nascoste fruste e stivaloni, è per lo meno azzardato accettare come sana e regolare la sovrapposizione identificativa tra piacere provato e dolore inferto. Non si può infatti negare che il piacere sessuale è, o dovrebbe essere, anche mezzo di comunicazione profonda con l’altro, in una relazione complessa e dipendente da fattori che attengono alla propria personalità, alle proprie convinzioni, al proprio sistema di valori, che non è mai del tutto avulso dalla cultura di appartenenza.
Nella soggettività di chi è dedito alle sopraccitate pratiche, invece, si deve riconoscere come tratto caratterizzante la presenza di una deviazione, che si origina da una forma di insicurezza pervasiva: a causa di una patologia di base, la ricerca di una compensazione per tale dolorosa debolezza non si struttura in forme soddisfacenti e mature nè il senso di inferiorità trova risarcimento in modelli di affermazione sociale; le forze libidiche vanno invece a coniugarsi in modo distorto con istinti auto o etero distruttivi.
Il terreno in cui queste persone affondano le loro radici è uno spazio che, auspicabilmente destinato a coltura di dolcezza, tenerezza, affettività, è stato invece occupato da umiliazioni, incomprensioni, mortificazioni: il risultato è che anche la spinta verso la sessualità, ben lungi dal coniugarsi a relazioni gratificanti, ha deviato verso un’organizzazione sadomasochista.
Dalla parte di chi diventa fruitore in rete di queste immagini, il crush si arricchisce di altre peculiarità non edificanti, perché il sadismo non è agito e non è nemmeno subito in prima persona in una dinamica in cui possa manifestarsi come l’altra faccia di un consenziente masochismo (“Non godo del dolore dell’insetto, mi immedesimo con la sorte della vittima”, dice un “praticante”): è invece spiato, con una delega ad altri dei comportamenti attivi. L’eccitazione è di tipo voyeristico: vi è astensione dall’agire le proprie pulsioni, incapacità anche a manifestare la violenza. Il piacere viene consumato nel ruolo dello spettatore, in solitudine, nella protezione garantita dalle comunicazioni anonime della rete.
Ovviamente non è tutto qui, in quanto l’elemento di devianza più macroscopico è l’uso di animali non umani: tale uso si ritrova anche in altri contesti, solo parzialmente analoghi, al servizio della zoofilia, di quella pratica cioè, anch’essa del tutto deviante, in cui l’animale costituisce un anomalo oggetto sessuale; nel crush esso rappresenta invece la vittima designata ed indifesa delle condotte violentemente morbose. E’ evidente un ulteriore elemento di patologia, perchè la ricerca del piacere si allontana a tal punto dagli obiettivi “naturali” che non vengono sostituiti solo i modi del suo raggiungimento, ma addirittura ci si serve dell’ausilio di specie altre dalla nostra, che evidentemente forniscono ulteriore rassicurazione nella loro assoluta vulnerabilità e incapacità di comunicazione, per lo meno a livello verbale. Siamo in una sorta di sottobosco oscurato dall’ombra dell’inconfessabile, dove tutto deve avvenire nella protezione del gruppo dei simili: “Non so il perché né lo voglio sapere, so che mi eccita e basta, però so con certezza che non è una cosa di cui posso vantarmi in giro”, confessa in rete un altro adepto.
Quindi un concentrato di sadismo, voyerismo, abuso di chi è indifeso, uso indiscriminato di animali: un mix che indiscutibilmente risulta alla maggioranza della gente del tutto incomprensibile e ripugnante, ma non si può non riflettere sul fatto che ad esso forse non si arriverebbe se non esistesse una gradualità di comportamenti a renderlo possibile.
I singoli elementi in cui queste abitudini possono essere scomposte si ritrovano, infatti, in molteplici situazioni: la prima riguarda il maltrattamento di animali attuato per il puro piacere che esso procura. Si va dalle sevizie messe in atto dai bambini che, lungi dall’essere adeguatamente stigmatizzate dagli adulti, vengono troppo spesso sdoganate quali accettabili corollari di fasi evolutive. Si passa ad altri comportamenti che con il crush presentano più di una affinità, come la tauromachia: anche in questo caso vi è un animale, grande e forte, ma debilitato, ferito, sfiancato; il torero, reso pressoché invincibile dall’apparato a disposizione, non desidera altro che ucciderlo in un confronto che gli esiti di ogni corrida testimoniano essere tutt’altro che paritario. Intorno una folla di spettatori/voyeristi, che nulla rischiano, segue lo spettacolo in un crescendo di eccitazione fino all’orgasmo finale in cui la tensione si scioglie e il piacere si consuma nell’esaltazione collettiva. Chiara differenza rispetto al crush è che in questo caso non si tratta di piacere nascosto con vergogna, ma al contrario di rappresentazione ingigantita, di esibizione di impulsi: la condivisione con tutti gli altri aumenta la fascinazione del rito, legittimato dall’ampio consenso sociale. Se poi tra gli spettatori che agiscono un’identificazione sadica con il torero ve ne siano alcuni che invece si immedesimano masochisticamente con il toro, non mi risulta sia al momento oggetto di studio.
Senza varcare i confini nazionali in cerca di esempi adeguati, altre pratiche anche in Italia offrono esempi di meccanismi analoghi: basti pensare alla sagre paesane, ancora oggi ben tutelate dalla legge in nome della tradizione, che vedono asini, mucche, conigli, rane, tormentati e a volte uccisi per il piacere del pubblico festaiolo. O alla caccia, che, ormai priva di qualunque nesso con le necessità alimentari, si risolve nel piacere sadico della sopraffazione mortale di esseri indifesi.
Questo è il terreno di coltura di certe perversioni: ci si abitua a tormentare animali, si impara a provare piacere nel farlo, avvallati dalla cultura in cui si è immersi: quando patologie di base impediscono, a causa di problemi intrapsichici e relazionali, una sessualità libera e matura, questa può incanalarsi in strade già aperte e assumere forme deviate e valenze feticiste, che vengono vissute in una solitudine tanto più vergognosa quanto maggiore è il contrasto con la liberalizzazione della società intorno.
Le affermazioni reperibili nei forum del crush dimostrano che, accanto all’imbarazzo e al disagio, gli amanti di questa perversione nutrono anche la consapevolezza dell’ipocrisia del mondo “sano” che li giudica: “si fanno molte più torture su animali da pelliccia o particolari riti per uccidere animali da allevamento”, “viviamo in un paese dove è legittima la caccia, dove le aragoste si cuociono vive, dove esistono i mattatoi”.
Siamo alle solite: c’è sempre qualcosa di peggio e il peggio è appannaggio di chi è altro da noi. Sappiamo purtroppo bene che, in siti molto meglio protetti, esistono video in cui il posto degli animali è occupato da bambini: al confronto di tali turpitudini, il fenomeno del crush viene giudicato un crimine bagattellaro, ammesso che crimine lo si consideri. Ma non si può non cogliere l’esistenza di un continuum tra vittime–bambini e vittime-animali, uniti dalla comune debolezza, vulnerabilità, incapacità di difendersi: il losco piacere consiste nella prevaricazione e nel tormento dell’indifeso, indifeso perché alla sua vita non viene attribuita alcuna importanza. E il pensiero corre più che ai bambini occidentali, divenuti, per altro solo negli ultimi secoli, soggetti di diritto, a quelli dei paesi poveri, vittime dell’abbietto turismo sessuale, stigmatizzato a livello giuridico, ma alla cui lotta, come dimostra il numero incredibilmente esiguo di condanne, non è certo dedicato un impegno adeguato alla vastità del fenomeno.
Di sicuro, anche le azioni più oscene e riprovevoli non sono mai opera incomprensibile di mostri, di alieni: esiste una progressione sulla strada del male, alimentata dalla noncurante connotazione attribuita a comportamenti che sono invece i prodromi del peggio. A ognuno di noi il dovere di essere portatore di un’etica a 360°, senza deroghe; solo a queste condizioni si potrà poi legittimamente anche inorridire.
Per quanto riguarda la signora di Rho, che ci dicono madre di tre figli, c’è davvero da augurarsi che il tutto non si limiti alla sua condanna, che pure possiede un innegabile valore simbolico. Agli animaletti torturati e uccisi si può solo rendere tardiva giustizia non minimizzando e svilendo la loro sofferenza; bisogna altresì ascoltare il campanello d’allarme che sta suonando impazzito richiamando alla consapevolezza del link che unisce la violenza sugli animali a quella sugli umani. E del ruolo imprescindibile di educatore di ogni genitore, nella coscienza che l’educazione deve essere prima di tutto quella al rispetto dell’altro, tanto più necessario e doveroso quanto più debole questo altro è”.





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