Il racconto di Lucio Petrizzi, il papà di Elena, la bambina dimenticata in auto. Uno straziante ricordo raccontato al Corriere della Sera.it e così va riportato, perchè non avrei parole diverse per raccontarlo.
Era il 18 Maggio 2011, un mattino caldo e soleggiato, Elena aveva 18 mesi e mentre l’accompagnava all’asilo cantavano insieme “Pippi Calzelunghe“. Quando alla pausa pranzo Lucio scende a prendere l’auto sente Elena gemere ed è in quel momento che il suo mondo crolla, che la sua vita si frantuma, che il suo cuore si ferma. Impossibile calmarlo, la piccola Elena sopravvisse per 3 giorni, tre lunghi giorni di agonia….
Lucio racconta quei momenti di panico, del fatto che non è un mostro, che può succedere a chiunque e che ci vogliono misure di sicurezza proprio per questo. E poi parla anche di Andrea il padre di Luca, il bimbo che è morto come Elena solo due settimane fa….
Dopo un mese e un giorno dalla morte di Elena nacque Sara. Per lei Lucio farebbe qualunque cosa eccetto una: portarla all’asilo. «Non ci riesco, non ce la faccio».
Le ceneri di Elena sono sepolte in giardino e il suo cuore batte nel corpicino di qualcun altro.
Lucio Petrizzi:
«Ricordo che fino a metà del tragitto Elena cantava Pippi Calzelunghe assieme a me, ricordo il rallentare del canto… Ho pensato che si fosse addormentata e ho continuato a guidare verso l’asilo, a quel punto concentrato sulle incombenze delle giornata. Casistica clinica, lezioni, studenti da seguire, trasferimento nella nuova sede. E poi la ristrutturazione della casa, mia moglie Chiara incinta di otto mesi…».
«Per arrivarci io passavo qui, davanti al lavoro. Quella mattina ho visto da lontano colleghi che stavano nel parcheggio a parlare e in quel momento tutta la mia attenzione è stata catturata da loro».
«I colleghi sono diventati in un istante il mio pensiero prevalente e seguendo quel pensiero sono entrato nel cortile dell’università e ho parcheggiato. È un meccanismo neurofisiologico, si sconnette la coscienza, si fanno le cose in automatico. Li ho salutati, siamo saliti assieme in ufficio, avevo in testa quello che dovevamo fare durante la mattina. Elena era scomparsa dalla mia mente, per me era all’asilo, al sicuro».
«Sono sceso per la pausa pranzo e quando sono salito in macchina ho sentito un rumore, un gemito. Per un istante ho pensato che un cane fosse entrato nell’auto, poi mi si è accesa la lampadina, mi è piombato addosso il terrore, è stato come se il sangue non circolasse più».
«Ma io l’ho capito subito, quando l’ho presa, che non c’era più nulla da fare. Era completamente incosciente, ricordo che ho cominciato a chiamarla, l’ho abbracciata, ho cercato di rianimarla, di raffreddarla, di fare la respirazione bocca a bocca…».
«Non siamo né mostri né pazzi, mi creda. Lo so che sembra impossibile e assurdo dimenticare un figlio in macchina ma io ci sono passato e lo posso dire: è successo a me, è successo ad altri prima e dopo di me e può succedere a chiunque. A persone normali e perbene, come noi. Negare che possa accadere significa permettere che accada di nuovo. Negli Stati Uniti si parla di più di trenta casi l’anno: possono essere tutti pazzi? Io sono imperdonabile, certo. Ma credo anche che in quello che mi è successo ci sia un difetto del vivere moderno. Questo continuo correre, questo senso del dovere esagerato, questo fare più cose assieme e dover sempre dimostrare di essere all’altezza… centomila obiettivi, risultati da raggiungere, e così ti perdi l’importanza delle cose reali. Finisce che lo spazio per portare tua figlia all’asilo lo ricavi, non è che costruisci il resto su quello spazio. E però se la società ci dice che dobbiamo correre ci deve dare anche la sicurezza per farlo. I sistemi di allarme sulle auto per non dimenticare mai più un bambino sono una possibilità, le scuole e gli asili che chiamano a casa se non vedono arrivare il piccolo sono un’altra possibilità. A questo punto qualcosa deve essere fatto».
Lucio come Andrea, il padre di Luca morto a due anni, due settimane fa.
«Quando l’ho sentito sono rimasto senza fiato davanti alla televisione. È stato come sprofondare nell’abisso, di nuovo mi è sembrato di tornare nel parcheggio dell’università e avere fra le mie braccia Elena incosciente. Ho in mente ogni passaggio di tutto il calvario che Andrea e sua moglie dovranno sopportare. L’ho chiamato, prima o poi ci incontreremo ma adesso ha bisogno di tutto tranne che della mia invadenza».
«A differenza di Andrea io non ho mai preso farmaci. Il dolore bisogna percorrerlo fino in fondo, non ci sono scorciatoie».
«Il giorno prima di quella mattina avevo letto che era più sicuro tenere il seggiolino dietro il sedile di guida e così l’ho spostato e l’ho reso meno visibile. Maledettamente, mentre Elena era in macchina al sole, io sono sceso a metà mattina per prendere dal bagagliaio delle cose e non l’ho vista perché c’erano i vetri oscurati… non l’ho vista, capisce?».
«Quando ci hanno detto che non c’erano più speranze abbiamo deciso di donare gli organi. È importante per noi l’idea che il cuore di Elena stia continuando a battere. Sappiamo come risalire ai bambini che vivono grazie a lei, un giorno se vorranno proveremo a guardarli negli occhi».