Jean Liedloff, psicoteraupeta nata e vissuta a New York, intorno agli anni sessanta ha avuto l’occasione di condividere parte del suo tempo con popolazioni dell’“età della pietra”; è convivendo, in particolare con le tribù indios degli Yequana, che ha elaborato e reso noto il rispetto per le esigenze legate al continuum di ogni individuo.
Per continuum si intendono quelle aspettative insite in ciascun neonato che, se assecondate, permettono lo sviluppo di una personalità completa, serena e appagata. Le osservazioni sul vissuto degli Yequana, il loro profondo rispetto per le individualità di ciascuno, siano essi adulti o bambini, ed il loro benessere quotidiano, ha portato la Liedloff a comparare il loro modo di vivere con il nostro mondo civilizzato e ad individuare nel loro modo di rapportarsi col bambino, il miglior modello possibile da seguire.
La Liedloff, nel suo libro “Il concetto del continuum”, non ci propone un ritorno all’età della pietra, bensì, una riflessione sul nostro mondo civilizzato affinché vengano riscoperte ed accettate le modalità idonee a soddisfare le aspettative innate, previste dall’evoluzione, in quanto ella ha individuato in questa mancanza il motivo per cui tra gli Yequana esiste qualcosa che è molto raro nel nostro stile di vita: la vera gioia.
Il nostro mondo civilizzato, infatti, priva il neonato delle esperienze previste dal continuum che si rivelano necessarie affinché si sviluppi in modo completo il suo potenziale innato; la conseguenza di questa deprivazione persisterà indiscriminatamente come parte del suo sviluppo a discapito della sensazione di armonia prevista dalla natura. Spesso, infatti, queste traumatiche privazioni infantili costituiscono le premesse per la formazione di individui ansiosi, sradicati, aggressivi.
Dunque, quali sono le aspettative del continuum che si sono palesate alla Liedloff nella convivenza con questo popolo così vicino al nostro modo di essere secondo natura?
Innanzitutto il bambino alla nascita esige contatto fisico: la fase in braccio è, infatti, la prima aspettativa del bambino. I nostri antenati camminavano su tutte e quattro le zampe e i bambini si aggrappavano, per sopravvivere, ai peli della madre. Nel momento in cui ci siamo rizzati sulle gambe posteriori liberando così le mani della madre, è toccato a lei mantenere questo contatto. Per milioni di anni i bambini appena nati sono stati tenuti vicini alle loro madri sin dal momento della nascita. Il fatto che ad un certo punto si sia deciso di credere che mantenere questo contatto fosse facoltativo non cambia minimamente la pressante necessità del bambino di essere abbracciato.
Nel mondo civilizzato veniamo privati di quasi tutta l’esperienza in braccio e di gran parte di quella successivamente prevista.
Sin dalla nascita veniamo disgiunti dal nostro continuum umano. La separazione dal corpo materno è una pratica diffusa in molti ospedali moderni e, una volta a casa, la madre, nella convinzione culturale che il pianto del bambino sia qualcosa da combattere e non, come è in realtà, un campanello di allarme che vuole chiamare l’unica fonte di rassicurazione di cui necessita, prosegue, grazie all’ausilio di carrozzine, culle e box a tenere separato il bambino. E’ così che il desiderio dell’esperienza in braccio accompagna tutto l’arco dello sviluppo della mente e del corpo in attesa di essere appagato e si creano le premesse per uno sviluppo di personalità incomplete, sempre alla ricerca di qualcosa.
L’opinione diffusa è che portare il bambino in braccio gli impedisca di diventare indipendente e di acquisire fiducia in sé. Tuttavia, l’autrice del libro sovverte questa convinzione, portando l’ esempio dei bambini Yequana, i quali, dopo aver trascorso i primi sei otto mesi in braccio, quando iniziano a gattonare e poi a camminare, si allontanano progressivamente dalla madre, della quale richiedono il conforto del contatto fisico solo in casi di emergenza. La madre, offrendo una guida minima indispensabile, fornisce al suo bambino la giusta dose di sicurezza per esplorare l’ambiente circostante; il suo ruolo è semplicemente quello di essere disponibile quando egli si rivolge a lei o quando la invoca.
Le aspettative del bambino sono le medesime che ebbero i suoi antenati e, dunque, egli si aspetta lo spazio e la libertà di potersi muovere in esso; nella fase di gattonamento egli ha sete di esperienze pertanto si concentra sempre meno sul tipo di circostanze e trattamento. Inoltre dimostra di avere tendenze verso gli esperimenti e la prudenza, infatti, generalmente le sue prime spedizioni sono brevi e prudenti e non c’è quasi bisogno che sua madre o chi o accudisce gli dia una mano nelle sue attività.
La donna Yequana non impone la sua volontà sul figlio, non dirige la sua attività né lo difende dai pericoli da cui sa che può guardarsi da solo.
Un’altra caratteristica del continuum, infatti, è far sì che il bambino, come tutti i cuccioli di animali, abbia un acuto senso di autoconservazione e una coscienza realistica delle proprie capacità. Il popolo Yequana, conoscendo le grandi doti di autodifesa dei loro bambini, permettono loro di giocare intorno a corsi d’acqua, senza impedimenti, così come di utilizzare liberamente coltelli affilati e tizzoni ardenti. Eppure, quanto constata la Liedloff è che ci sono molti più incidenti tra i bambini ultra protetti del mondo civilizzato piuttosto che tra gli Yequana dove i pericoli offerti dall’ambiente sono sicuramente maggiori. Le madri hanno fiducia nel bambino e non troncano le sue iniziative, contrariamente alle madri del mondo civilizzato, poiché confidano nella capacità di auto-protezione. Questa assunzione di responsabilità è un elemento che rientra nelle aspettative di ognuno, tuttavia, avere fiducia è uno dei problemi più spinosi per chiunque desideri applicare i principi del continuum nella vita “civilizzata”.
Il bambino, per il popolo Yequana, è qualcosa di positivo, sotto tutti gli aspetti, pertanto, tra essi non esiste il concetto di “bambino cattivo o bravo”. Si parte dal presupposto che le motivazioni di un bambino siano sociali e non antisociali, pertanto, ciò che fa viene accettato come un atto di una creatura innatamente “giusta”. Questo presupposto di positività, o antisocialità, in quanto caratteristica intrinseca della natura umana, è l’essenza dell’atteggiamento degli Yequana verso gli altri, di qualunque età essi siano.
Il presupporre una socialità innata è in diretto contrasto con la cultura del mondo civilizzato che tende ad intervenire sulle scelte di comportamento per fare del bambino un individuo sociale, allontanandolo dal suo percorso naturale.
Così come previsto dal continuum, l’atteggiamento tipico degli Yequana, siano essi adulti o bambini consiste nel non persuadere gli altri. La volontà del bambino è il suo organo motore, pertanto non c’è alcuna imposizione da parte degli adulti: come giocare, quanto mangiare, quando dormire, e così via, sono scelte che spettano al bambino. Lasciare al bambino la scelta sin da tenera età permette di ottenere la massima efficienza del suo spirito critico, sia nel delegare sia nel prendere decisioni.
Dunque, il concetto del continuum su cui la Liedloff ha posto l’accento consiste nel far sì che il bambino si sviluppi secondo quanto previsto dall’evoluzione, pertanto, le esperienze di cui, istintivamente, necessita il bambino passano da una ricca esperienza “in braccio” ad una prudente e, via via, sempre maggiore esplorazione dell’ambiente che gli consentono di acquisire fiducia nelle proprie capacità e benessere personale, grazie al soddisfacimento delle sue aspettative innate.
Valeria Montuori