“<<Acabar>>, in spagnolo, significa finire. E in sardo <<accabadora>> è colei che finisce. Agli occhi della comunità il suo non è il gesto di un’assassina, ma quello amorevole e pietoso di chi aiuta il destino a compiersi. È lei l’ultima madre. Maria e Tzia Bonaria vivono come madre e figlia, ma la loro intesa ha il valore speciale delle cose che si sono scelte. La vecchia sarta ha visto Maria rubacchiare in un negozio, e siccome nessuno la guardava ha pensato di prenderla con sé, perché <<le colpe, come le persone, iniziano a esistere se qualcuno se ne accorge>>. E adesso avrà molto da insegnare a quella bambina cocciuta e sola: come cucire le asole, come armarsi per le guerre che l’aspettano, come imparare l’umiltà di accogliere sia la vita sia la morte. D’altra parte, <<non c’è nessun vivo che arrivi al suo giorno senza aver avuto padri e madri a ogni angolo di strada>>.
Dalla quarta di copertina del libro “Accabadora” di Michela Murgia
Ci sono libri che lasciano un solco profondo per tutta la vita. Il libro di Michela Murgia intitolato l'”Accabadora” è uno di questi. Un romanzo che ognuno di noi dovrebbe leggere almeno una volta nella vita (ma anche due, tre, quattro volte per coglierne le infinite sfumature!).
Michela, nata a Cabras il 3 giugno 1972 e morta a Roma il 10 agosto 2023, è stata una scrittrice e critica letteraria italiana e questo suo particolarissimo romanzo ha vinto i premi Campiello, Dessì e SuperMondello.
Le preziose riflessioni che nascono dalla lettura del libro
Questo romanzo si legge tutto d’un fiato. La storia di Maria e Tzia Bonaria accompagna il lettore ad incontrare i suoi scheletri nell’armadio: pagina dopo pagina ci si trova inevitabilmente faccia a faccia con la morte e non si hanno vie di fuga. Questo scritto della Murgia è un invito, rivolto ad ognuno di noi: ci viene chiesto di iniziare il prima possibile a fare i conti con la vita che finisce, nostra e quella altrui. Ma è anche un invito a trovare la nostra missione di vita.
Il libro si apre con una definizione meravigliosa, viene descritto il significato di “figlio d’anima“:
“Fillus de anima. È così che li chiamano i bambini generati due volte, dalla povertà di una donna e dalla sterilità di un’altra”.
I figli sono solo quelli generati con il corpo oppure anche quelli cresciuti da chi non ha il tuo stesso sangue? Chi decide il limite tra figlio o non figlio? C’è davvero bisogno di tracciare una linea di confine?
Si affronta poi il grande tema della maternità in relazione con la morte: madre è colei che dà la vita ma madre è anche colei che accompagna nella morte, siamo in grado di accogliere queste due maternità o preferiamo accettarne una sola e fuggire dall’altra? Cosa vuol dire davvero essere madre?
Tzia Bonaria è una donna che percepisce di avere una grande missione di vita: potrebbe non ascoltare questa sua chiamata alla vita e alla morte, potrebbe vivere senza pesi sulle spalle, potrebbe volgere alle spalle a questo suo scomodo ruolo ma decide, nonostante tutto, di viverlo. Quanto siamo disposti a pagare per essere davvero noi stessi? Siamo in grado di far tacere il rumore del mondo e di ascoltare solo la nostra voce interiore?
“Accabadora” è un libro profondo, a tratti difficile da digerire. Penetra in ogni nostra cellula e rimane lì, a smuovere la nostra interiorità con spietatezza e senza mezze misure. Eppure è un libro essenziale per ognuno di noi, un libro vero, in grado di farci compiere un viaggio contorto ma importantissimo dentro di noi.
“L’anziana sarta parlava con la sincerità con cui si fanno le confidenze agli sconosciuti sul treno, sapendo che non si dovrà sopportare mai più il peso dei loro occhi.
<<Non mi si è mai aperto il ventre, – proseguì – e Dio sa se lo avrei voluto, ma ho imaprato da sola che ai figli bisogna dare lo schiaffo e la carezza, e il seno, e il vino della festa, e tutto quello che serve, quando gli serve. Anche io avevo la mia parte da fare, e l’ho fatta. >>
<<E quale parte era?>>
<< L’ultima. Io sono stata l’ultima madre che alcuni hanno visto.>>”
Da libro “Accabadora” di Michela Murgia
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