Il tempo nelle pratiche contadine
Il tempo nelle campagne fluiva seguendo un calendario ciclico, agricolo. A sancire le tappe importanti dei lavori nei campi erano le fasi lunari, i giorni legati ai cambi di stagione come solstizi ed equinozi, ma soprattutto alcuni momenti peculiari che i contadini potevano osservare e che avevano una grande valenza simbolica: la fine dell’inverno e l’inizio del nuovo anno agricolo coincideva col momento in cui le galline riprendevano a deporre le uova, simbolo antico di rinascita, onnipresenti sulle tavole pasquali e nei riti misterici.
Il periodo della raccolta delle rape annunciava il tempo dei morti. Per onorare la loro memoria si preparavano piatti di castagne, dolci, e fave. Le fave erano associate ai morti già al tempo dei Pitagorici. Non mancavano di certo fichi e melograni, che facevano eco ai riti Eleusini senza che i contadini ne fossero istruiti. In onore dei morti, si scavavano le rape raccolte, all’interno delle quale si posava un lume per illuminare il cammino alle anime.
Questo rito era conosciuto col nome di Lumere o Lumaza ed era celebrato tra gli ultimi giorni di ottobre e San Martino, un periodo ritenuto “fuori dal tempo”, fino all’11 novembre quindi, giorno in cui si celebrava con banchetti a base di oche il capodanno contadino, ovvero la fine dei lavori nei campi.
Ma perché l’oca? C’è dietro a questa usanza il lontano ricordo di una tradizione precristiana: il capodanno celtico celebrato in quei giorni. L’oca, sacra ai Celti, era un animale psicopompo, messaggero dell’Oltretomba.
Antiche pratiche contadine tra sacro e profano
Trasmettere le pratiche contadine di una volta comprende il mantenere vivo un legame atavico multidimensionale che ci parla delle nostre radici identitarie, culturali, familiari, ma anche con il nostro territorio, una connessione che pure gli antichi Romani rispettavano: quella col Genius Loci, lo Spirito del luogo, il nume tutelare rappresentativo di una terra che sostiene, nutre e dona le risorse necessarie per la vita. Il territorio era parte integrante della comunità, la proteggeva, ne decideva le sorti e per questo era tenuto in grande considerazione.
Il rispetto del Genius Loci promosse molti rituali di cui sono rimaste tracce nelle nostre campagne fino al 1930 e oltre, soprattutto per propiziare i raccolti facendo eco agli antichi riti di fertilità pagani sopravvissuti al cristianesimo. Nella cultura contadina la realtà materiale non era dissociata dalle forze ultraterrene, nella natura si celavano forze che potevano causare abbondanza o carestia, salute o malattia. Il raccolto diventava allora vettore di una comunicazione con queste forze e ne illustrava la qualità. Chi tanto o poco raccoglieva sapeva di essere stato benedetto o meno da esse.
→ Potrebbe interessarti anche: Genius Loci, i luoghi hanno un’ anima?
Sacro e profano si mescolavano quindi senza distinzione nelle faccende domestiche e agricole: il lavoro contemplava gesti e formule ritenute magiche in ogni occasione: che fosse preparare il pane, stendere il bucato o preparare i campi alle semine.
Per esempio, per molti seminare significava consegnare i semi, simbolo del futuro, al mondo dei morti e affidarli alla loro benevolenza. Gli avi sottoterra avrebbero aiutato il germogliare della nuova vita reiterando al livello simbolico il mistero che trascorre tra vita, morte, e rinascita.
Tradizioni o trasmissione rituale di un’identità collettiva?
Le pratiche contadine creavano aggregazione, facevano comunità, mantenevano viva un’identità culturale legata ad una terra specifica, trasmettendo gli antichi mestieri, gli antichi saperi ad essa collegata. Ricette, detti e mestieri diventavano patrimonio indissolubile dal luogo dove nascevano: c’erano le tradizioni collinari, montanare, di mare, di pianura. Ogni regione vantava colture specifiche promosse dalle specificità del clima e del terreno, e così anche il carattere delle persone veniva forgiato dall’ambiente e da ciò che offriva la natura intorno.
Tutto questo ha dato nascita a prodotti oggi riconosciuti come tipici di un territorio, creando ricette entrate tra le eccellenze culinarie, senza parlare dell’artigianato e del tripudio di conoscenze e savoir faire legato alla terra in cui si viveva.
Le pratiche contadine del passato hanno plasmato la nostra identità culturale, ci hanno fornito oralmente attraverso detti popolari, canti e filastrocche, delle informazioni importanti relegate purtroppo alla superstizione, come lo è eseguire rituali ed azioni senza purtroppo ricordarne il perché, ma dietro a quelle pratiche contadine magiche vi era in verità una ricca simbologia ormai in gran parte dimenticata.
→ Leggi anche: I meravigliosi significati nascosti delle danze popolari
Restituire la dignità alla materia
C’è una filosofia ecologica interessante da riscoprire dietro alle antiche pratiche contadine: l’idea secondo la quale ogni cosa è una risorsa. Allora non si contemplava l’idea di rifiuto, d’immondizia come lo concepisce la nostra società consumistica. Mentre oggi ciò che non serve più diventa materia rinnegata, abbandonata ai margini della società e riempita di una connotazione negativa, nel vecchio mondo contadino, i rifiuti non esistevano.
In campagna, tutto tornava utile ed era iscritto in un processo circolare di utilizzo e riuso della materia; grazie all’ingegno e alla necessità, ogni parte del raccolto, e qualsiasi materiale, vantava un’utilità, una dignità. Ma non vi era solo il mero utilizzo ma anche una credenza, una simbologia e dei rituali che creavano un substrato culturale importante.
L’esempio del mais, simbolo delle nostre campagne
Prendiamo per esempio la pannocchia di mais, il cereale che ha forse caratterizzato di più il mondo contadino: la pannocchia veniva sgranata grazie ad ingegnosi macchinari manuali e poi macinata. Mentre la farina era riservata all’alimentazione della famiglia, la parte grossolana finiva in pasto agli animali. La barbetta e le foglie invece erano usate per accendere il focolare. La cenere era poi buttata nell’orto e nel frutteto come concime, oppure usata nel pollaio dalle galline per i loro bagni di polvere che servivano a premunirsi dai parassiti come i pidocchi.
Con le foglie si facevano delle bambole o si intrecciavano per fare l’impagliatura delle sedie, delle ciabattine, dei cesti, delle borse.
Il fatto che l’arte dell’intreccio stia piano piano tornando in auge non deve stupirci (si trovano oggi artigiani-influencer su Instagram e diversi corsi online): fa parte di questo desiderio forte e sentito di recuperare parte della memoria che passava attraverso l’abilità delle mani e quelle pratiche contadine tramandate per secoli.
Il rituale divinatorio delle foglie di mais
Non mancava di certo il rituale divinatorio legato al mais che indicava il tempo dell’inverno, sapere tramandato come si faceva allora attraverso i detti popolari:
“Loeuva ben vestida,
inverno fredd e marsciottent.”
(Detto popolare romagnolo)
Più le foglie erano spesse e più l’inverno si annunciava freddo e umido. Queste pratiche contadine unite a detti e rituali semplici possono fare sorridere oggi ma, pensando ad un tempo in cui non vi era nessun bollettino meteorologico, poter prepararsi adeguatamente alla stagione più difficile era spesso una questione di vita o di morte.
Antico rimedio di una volta: la tisana di “barbetta”
La barba del mais faceva parte anche della farmacopea contadina: era usata in tisana e decotti per lenire i dolori. In erboristeria viene consigliata contro il mal di testa, il dolore muscolare e articolare: è infatti un utile depurante, decongestionante, e antiinfiammatorio naturale.
Fonti e approfondimenti:
• AA. VV., Il rito alimentare. Una prospettiva antropologica per una riflessione etica, a cura di Eleonora Fiorani, Cesena, Macroedizioni, 1992.
• Granata Tiziana, Almanacco delle tradizioni popolari, Editoriale Programma, Treviso, 2022.
• Il raccolto annuale: il mais nella cultura popolare
• I rifiuti nel vecchio mondo contadino
• Lattari Cecilia, Il giardino segreto della strega. Strumenti, piante, pratiche e incanti, Ed. Vivida, 2022.
Sandra Saporito
www.risorsedellanima.it