Cherofobia è un neologismo, non riconosciuto dalla nosografia psichiatrica, che starebbe ad indicare una sorta di “paura della felicità”. Una difficoltà di alcune persone a vivere e godere delle emozioni positive e degli eventi gratificanti della vita. Ma è proprio così?
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La cherofobia: un’eresia postmoderna?
Da più parti ormai si è soliti inventare continuamente neologismi per indicare vecchie e nuove forme di disagi emozionali, non sempre psicopatologici, che contraddistinguono gli esseri umani. Una corsa a catalogare, mimando una nomenclatura psichiatrica, ogni manifestazione del sentire o del comportamento umano che si discosti dalla “norma” placidamente attesa…
Questo tipo di operazioni avvengono in un contesto culturale sempre più improntato all’immagine e al “fare” piuttosto che all’essere e al sentire. E possono rivelarsi molto pericolose. Se sentiamo l’esigenza di dare un nome, di etichettare come “malattia”o “disturbo”, ciò che devia dalle nostre aspettative di “normalità” rischiamo di rinunciare a porci domande sul significato di quanto sta accadendo. Rischiamo di etichettare come “devianti”, “non conformi”, “malati” certi comportamenti o manifestazioni dell’umano rinunciando a comprenderne il senso (anche evolutivo).
Alcune persone sembrano aver paura della felicità e questo, nella nostra attuale cultura che guarda al successo e all’automiglioramento costante, suona eretico, scomodo, non conforme… Perché mai non dovremmo voler essere felici?
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Felicità e conformismo sociale
Un vecchissimo, quanto suggestivo, articolo pubblicato nel lontano 1967 su Psychological Bulletin titolava: Correlates of Avowed Happines proponendo una sorta di “to di list” delle caratteristiche di una persona felice. Questa dovrebbe essere: giovane, sana, ben educata, ben pagata, estroversa, ottimista, senza preoccupazioni (ci mancherebbe…!), religiosa, sposata, con un buon lavoro, una buona autostima, senso morale, ambizioni modeste…
Ancor più conformista sembra la allusione al concetto di “famiglie intatte e felici” del Programma Mercury USA degli anni ’60 (Vaillant, 2003; Grasso e Stampa, 2006).
Queste definizioni conformiste sembrano intendere la felicità come una sorta di “dovere” che possa essere ordinato e prescritto. Quando non un prodotto che possa essere facilmente acquistato e consumato…
È il falso riduttivo mito della felicità come monolitica, sempre uguale a sé stessa (quel famigerato “e vissero tutti felici e contenti”). E, per carità, esente da “infelicità”, preoccupazioni o problematiche di sorta…
Ecco che la cherofobia, un qualsivoglia timore di aderire a questo stereotipo semplicistico e doveristico di felicità, viene bollata, con un nome inventato per l’occasione, come deviazione dalla norma, malattia, stortura da riportare sulla via attesa…
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“Non ti manca niente!…”
Salute, ricchezza, status sociale sono fra i fattori oggettivi più sterotipalmente ascritti alla felicità. Va da sé – a proposito della fantomatica cherofobia – che chi ha la fortuna di averli “deve” essere felice… Come recita quel vecchio adagio che, colpevolizzando una qualsivoglia persona per un qualunque segno di disagio emozionale, dice “ma di cosa ti lamenti… non ti manca niente!”.
Molte donne che hanno attraversato una depressione post partum, ad esempio, si sono sentite ripetere frasi di questo tipo. In fondo il loro bambino era nato sano e forte, quindi perché non erano scontatamente felici come ci si aspetterebbe da una “brava” madre?
E che dire di quelle persone che, pur non avendo i “requisiti” oggettivi per essere definite felici, riescono a sentirsi tali?
Sentite cosa scriveva dal carcere Rosa Luxemburg…
“E’ il mio terzo Natale in gattabuia, ma non fatene una tragedia. Sono calma e serena come sempre. Ieri sono rimasta a lungo sveglia…così al buio, i miei pensieri vagano come in sogno… Me ne sto qui distesa, sola, in silenzio, avvolta in queste molteplici e nere lenzuola dell’oscurità, della noia, della prigionia invernale e intanto il mio cuore pulsa di una gioia interiore incomprensibile e sconosciuta, come se andassi camminando nel sole radioso su un prato fiorito. E nel buio sorrido alla vita… In quei momenti penso a voi, a quanto mi piacerebbe potervi dare la chiave di questo incanto, perché vediate sempre e in ogni situazione quel che nella vita è bello e gioioso, perché anche voi possiate sentire questa ebbrezza e camminare su un prato dai mille colori”.
(Rosa Luxemburg)
La cherofobia non è una fobia …
Posto dunque che nessun fattore oggettivo è necessario o sufficiente per la felicità (Albrecht e Devlieger, 1999), le persone hanno quasi sempre dei buoni motivi per sentire quello che sentono. E la teoria più spesso utilizzata di un presunto “autosabotaggio” interno per spiegare la famigerata cherofobia, il più delle volte si rivela un clamoroso “fake”!
È vero, certo, alcune persone temono di godere a pieno o di riconoscersi all’altezza dei loro traguardi o successi a causa di alcuni conflitti nevrotici. E per questo motivo possono inconsapevolmente fallire proprio quando sono più vicini alla meta, rovinando tutto sul più bello..
Ma molte altre volte, quella dell’autosabotaggio è una falsa spiegazione. Ci sono altre, ottime, ragioni per le quali una persona può non riuscire a godere di quella che sembrerebbe a tutti gli effetti una situazione gratificante. E non ha una fobia nel senso in cui useremmo questa parola per chi ha un terrore esagerato e invalidante per i ragni, i luoghi affollati o i contagi da malattie…
… ma molte altre cose!
Fra le situazioni interpersonali in cui più spesso si leggono rifermenti alla cherofobia ci sono naturalmente le relazioni sentimentali. Così come ci sono persone che non riescono a interrompere rapporti distruttivi e permangono in una condizione di dipendenza affettiva da partner sfuggenti o violenti. Ce ne sono altre che, pur trovando partner gratificanti e rispettosi, non sono nelle condizioni di stabilire in rapporto stabile e duraturo nel tempo.
La diffidenza, la paura dell’intimità, la subdola e spesso inconscia convinzione di non meritare amore rendono alcune persone molto in difficoltà quando si tratta di instaurare relazioni amorose. Si tratta di mollare il controllo, conoscere l’altro/a e farsi conoscere, pur con tutti i difetti e le imperfezioni del caso…
Alcune persone, a causa di relazioni primarie cronicamente traumatiche e inaffidabili che hanno minato il loro senso di sicurezza interna, vivono una vera e propria tragedia. Ogni volta che sono portate ad affezionarsi a qualcuno, a legarsi emotivamente ad una persona (che sia un partner, un amico o un terapeuta) rivivono la sensazione disorganizzante di pericolo sperimentata nelle loro relazioni primarie. Non possono allora far altro che allontanarsi perché il legame affettivo riattiva in loro vissuti traumatici che non riescono a tollerare. Solo lunghi e spesso frammentari percorsi di psicoterapia riescono a dar loro modo di apprendere, in un contesto interpersonale protetto, le basi per un senso di sicurezza interno che è loro mancato.
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Non facciamoci ingannare dalla cherofobia
Chiunque senta di non riuscire a godere di cose o situazioni interpersonali che scontatamente saremmo portati a definire felici non è un deviante… Ha probabilmente delle buone ragioni per non sentirsi in linea con quello che ha intorno, può provare dolore o sgomento per questo, ma non è di certo malato come se avesse il morbillo, né tantomeno pazzo.
Le motivazioni di noi esseri umani sono molteplici, spesso contraddittorie e non sempre autoevidenti a noi stessi. Alle volte, piuttosto che etichettare qualcosa che non appare semplice e conforme come si vorrebbe, sarebbe meglio accogliere, interrogarsi e provare a comprendere…