La vergogna è un’emozione piuttosto sgradevole da provare. Può essere percepita dalla nostra psiche come un allarmante segnale di pericolo. Nella vergogna non è semplicemente la nostra condotta a non andar bene. Ma siamo tutti noi stessi ad sentirci messi in discussione. Per questo motivo è così difficile riconoscerla e tollerarla. Molto più spesso cerchiamo di negarla, fuggirla o trasformarla in altre emozioni.
Ma è possibile farci amicizia? Vediamolo insieme.
Emozioni primarie e emozioni autocoscienti
Il sentimento di vergogna, nella mappa delle nostre emozioni, è definito come un’emozione secondaria, cioè un’emozione dell’autoconsapevolezza. Che cosa significa questo?
Non tutte le nostre emozioni sono uguali. Ve ne sono alcune, più semplici e innate: sono le emozioni primarie. E altre, più complesse, che sviluppiamo solo successivamente man mano che matura la nostra autoconsapevolezza.
Vi ricordate il film di animazione Inside Out? Gioia, Paura, Rabbia e Tristezza sono emozioni primarie. Sono, nella loro forma innata e più elementare, reazioni istintive di avvicinamento/allontanamento da uno stimolo. E in quanto tali sono funzionali alla nostra sopravvivenza di base. La paura e la tristezza ci ritraggono da una situazione per metterci al sicuro o ritirarci in noi stessi. La rabbia o la gioia ci portano ad avvicinarci all’esperienza fuori da noi per attaccare il “nemico” o partecipare di una sensazione gratificante e piacevole. Per provare queste emozioni non è necessaria una forma di autoconsapevolezza, sono reazioni istintive.
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Vergogna e autocoscienza
Man mano che cresciamo però diventiamo consapevoli di essere persone separate dagli altri. Di avere una mente diversa da quella dei nostri genitori. Così come diventiamo coscienti dei codici morali di condotta e di cosa gli altri si aspettano da noi. Interiorizziamo in tal modo, insieme alla consapevolezza di noi stessi, una serie di valori che guidano i nostri comportamenti. Solo questo processo ci permette di affinare la nostra risposta emozionale agli eventi. Compaiono emozioni secondarie, più sofisticate e complesse come: la vergogna, il senso di colpa, la gratitudine o l’orgoglio.
Per provare questi stati d’animo dobbiamo avere coscienza di noi stessi e delle altre persone intorno a noi. Si tratta infatti di emozioni che si sviluppano entro i contesti relazionali e di convivenza in cui siamo. Per questo motivo la vergogna può essere definita un’emozione sociale. Perché ha a che fare col guardare e l’essere guardati. Quando si prova vergogna di sé stessi si ha la sensazione di essere smascherati o svalutati nel proprio valore personale. O si teme di non essere all’altezza di ruoli identitari in cui ci si era riconosciuti. Naturalmente, come tutte le componenti della nostra tavolozza emozionale, anche la vergogna ha la sua utilità. Dobbiamo però saperla riconoscere e gestire. Perché se ce ne facciamo travolgere rischiamo di rimanerne paralizzati.
E tuttavia io lo sono,
non lo respingo mai come un’immagine estranea,
ma mi è presente come un me che io sono senza conoscerlo,
perché lo scopro solo nella vergogna
(in certi casi, nell’orgoglio).
Sono la vergogna o la fierezza
che mi rivelano lo sguardo altrui
e me stesso al limite dello sguardo;
che mi fanno vivere, non conoscere,
la situazione di guardato.
Sartre (L’essere e il nulla, 1943)
Vergogna e senso di colpa
Possiamo capire ancora meglio in cosa consista la vergogna se la confrontiamo col senso di colpa. Spesso si fa confusione e si utilizzano questi due termini come fossero sinonimi. O, ancora, si è più pronti ad ammettere e a scambiare un sentimento di vergogna come senso di colpa. Sebbene anche il senso di colpa possa risultare profondamente disfunzionale nella sua accezione originaria è senz’altro più “digeribile” del sentimento di vergogna. Quando ci sentiamo in colpa, infatti, riconosciamo di aver messo in atto una condotta scorretta o potenzialmente dannosa per qualcun altro. La nostra attenzione è sul comportamento, non sul nostri valore personale.
Quando invece ci vergogniamo molto per un errore commesso iniziano i guai. Si perché questo sentimento, a differenza del senso di colpa, ci darà la sensazione che a non andar bene non sia semplicemente una nostra azione specifica. Ma che sia in discussione globalmente tutto il nostro valore personale, tutta la nostra autostima. In questi casi la vergogna rischia di paralizzarci. Se si può rimediare a un errore fatto. Non c’è rimedio ad un turbamento interiore che ci fa credere che noi nella nostra essenza siamo sbagliati e privi di valore.
L’utilità della vergogna
Come il senso di colpa, anche la vergogna ha in teoria una sua funzione potenzialmente utile e adattiva.
Il senso di colpa ci segnala che qualcosa nella nostra condotta non è appropriato. La vergogna dovrebbe allertarci che ciò che stiamo facendo contravviene ai valori o agli ideali a cui si ispira la nostra personalità. O, ancora, che le nostre scelte non rendono giustizia alle nostre capacità. A volte questa sensazione potrebbe anche essere utile a segnalarci che non stiamo procedendo secondo ambizioni sane o autentiche. Ma c’è un però…
La nostra vulnerabilità alla vergogna, il rischio cioè di venirne paralizzati, dipende dalla instabilità della nostra autostima e da quanto non siamo sicuri di noi stessi.
Tutti noi abbiamo bisogno di sentirci degni di valore, amore e stima. Si tratta di un bisogno vitale per la nostra psiche dal quale dipendono un senso di identità stabile, un’autostima sufficientemente solida e molte altre cose. Alcuni, per carenze evolutive e deprivazioni familiari, non hanno potuto sviluppare una sicurezza abbastanza solida. Rischiano quindi di rimanere “narcisiticamente vulnerabili”. Cioè troppo dipendenti dalle conferme degli altri. Una lode li farà sentire improvvisamente diversi, vincenti, rassicurati. Ma una critica o un fallimento rischierà di farli piombare in una vergogna soverchiante facendoli sentire assolutamente privi di valore.
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Altre persone potrebbero avere un’autostima sufficiente solida, ma incorrere in temporanei stati di vulnerabilità narcisistica quando accade loro qualcosa nella vita che mette profondamente in discussione il loro valore personale o il loro senso di identità.
La vergogna non riconosciuta
Nei casi citati sopra può essere arduo tollerare il sentimento di vergogna e coglierne gli aspetti adattivi. Più spesso si cercherà di prenderne le distanze. Magari trasformandolo in rabbia: molte persone quando si sentono messe in discussione se la prendono con gli altri per tornare a sentirsi forti. Oppure, come si è accennato, camuffandolo da falso senso di colpa. O, ancora, rimuovendo l’evento, archiviandolo come se non fosse mai accaduto. Alcuni, infine, preferiscono accusare gli altri e addossare a loro la responsabilità dei propri reali o presunti fallimenti. Tutte queste strategie di difesa dalla vergogna sono solitamente inefficaci. Non solo perché non aiutano a sentirsi realmente meglio. Ma anche perché creano non pochi problemi e incomprensioni nelle relazioni.
Come possiamo imparare a prendere dimestichezza con il sentimento di vergogna?
Michael Lewis è uno psicologo cognitivista che molto si è occupato della questione (H.B. Lewis, 1971; M. Lewis, 1995). Egli suggerisce alcune vie.
Fare amicizia con la “tigre”…
La confessione
Raccontare a qualcuno (non la persona offesa, sia chiaro) un evento che ci ha fatto provare vergogna può aiutare a stemperarla. Per fare questo infatti dobbiamo, almeno in parte, porci dal punto di vista del nostro ascoltatore, provare cioè ad osservarci da fuori. Questo diverso punto di vista su noi stessi può aiutarci ad attenuare la severa svalutazione di cui siamo vittime. Di solito visti con un occhio esterno i nostri errori o difetti sono molto meno “drammatici”, ci ricordano solo che siamo umani come chiunque altro…
L’autoironia
L’umorismo è uno dei meccanismi di difesa più evoluti della nostra mente. Anche ridere di noi stessi, infatti, ci consente di prendere le distanze dall’esperienza emotiva della vergogna. Inoltre ci consente nuovamente di identificarci nel ruolo di un osservatore esterno a noi. In questo modo cessiamo di sentirci il bersaglio del giudizio altrui. Possiamo identificarci con chi osserva la scena e coglierne gli aspetti paradossali e umoristici. Questo può aiutarci molto a sviluppare un sano senso di empatia e simpatia per gli aspetti meno nobili di noi stessi.
“Il clown che fa ridere gli altri di se stesso non si sente umiliato, poiché è egli stesso ad averli fatti ridere” (Piers, 1953).