Nella prima sezione della sua opera I fiori del male, Baudelaire colloca quattro componimenti dedicati allo Spleen. Questo concetto, molto affine al male di vivere trattato da altri grandi poeti, utilizza un termine inglese analogo all’omologa parola greca splēn: milza. Quest’organo, secondo gli antichi, era sede delle emozioni umane negative, quelle riferibili a malinconia, tedio, vuoto interiore, irrequietezza e ansia.
Lo Spleen nelle poesie di Baudelaire non identifica un’emozione singola, puntuale; ma uno stato psicologico e fisico che abbraccia l’intera personalità dell’individuo, un “male di vivere” complesso e sfaccettato in grado di deformare e distorcere il modo in cui si percepisce la realtà, sia quella esterna, che quella interna a sé stessi. Vediamo allora, attraverso i versi di Baudelaire, le diverse sfumature possibili del significato dello Spleen.
Le emozioni negative nello Spleen di Baudelaire
Pluvioso, irritato contro l’intera città, / versa dalla sua urna a grandi fiotti un freddo tenebroso / sui pallidi abitanti del vicino cimitero / e la mortalità sui quartieri nebbioso. // Il mio gatto sul pavimento, alla ricerca di un giaciglio / agita instancabilmente il suo corpo magro e rognoso; / l’anima di un vecchio poeta erra nella grondaia / con la voce triste di un fantasma freddoloso. // La campana si lagna e il ceppo che fa fumo / accompagna in falsetto la pendola raffreddata, / intanto che, in un mazzo di carte pieno di olezzi sudici, // lascito fatale di una vecchia idropica, / il bel fante di cuori e la regina di picche / discutono sinistramente sui loro amori defunti. (75 – Spleen – Pag. 128)
In questi primi versi lo Spleen è descritto prevalentemente come una sorta di tristezza inquieta, di depressione agitata, quella che in psichiatria si identificherebbe col termine disforia. Questo particolare stato dell’umore viene descritto impressionisticamente dal ripetuto accostamento di immagini tristi e desolate, in grado di trasmettere al tempo stesso una cupa inquietudine e una sinistra agitazione. La mortifera quiete del cimitero vessata dalla furia di una pioggia torrenziale. Lo stato di consunzione del gatto che tuttavia si aggira inquieto alla ricerca di un giaciglio che non trova. Lo scoppiettio sinistro di un ceppo che non arriverà a riscaldare il cibo ormai freddo…
Si tratta di stati umorali in cui angoscia e depressione vengono vissute con un’instancabile inquietudine, una fremente ansia senza oggetto in cui la persona non sta bene da nessuna parte, in nessun luogo e in nessun modo. Questa sgradevole sensazione di non riuscire a stare, di non sentirsi in nessun posto esprime e alimenta un senso di disperazione, solitudine e vuoto. Molti sintomi psicologici possono accompagnarsi a queste sensazioni disforiche con cui la mente non accetta di soggiacere alla calma mortifera dell’umore depressivo, ma reagisce inquieta alla ricerca del senso perduto delle cose.
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La perdita, la noia e il lutto nello Spleen di Baudelaire
Ho più ricordi che se avessi mille anni. // Un grosso mobile a cassetti ingombro di bilanci, / di versi, di biglietti galanti, di atti processuali, di romanze, / con grevi capelli ravvolti nelle quietanze, / nasconde meno segreti del mio triste cervello. / È una piramide, un’immensa tomba, / che contiene più morti della fossa comune. / Io sono un cimitero aborrito dalla luna, / in cui, come rimorsi, si trascinano lunghi vermi / che s’accaniscono continuamente sui miei morti più cari. / Sono un vecchio camerino pieno di rose appassite, / dove giace un’accozzaglia di mode antiquate, / dove miseri pastelli lamentosi e pallidi Boucher, / soli respirano il profumo di una fiala stappata. // Nulla eguaglia la lentezza di quei giorni zoppicanti, / quando, sotto i pesanti fiocchi delle annate nevose / la noia, frutto della tetra perdita di curiosità, / prende le proporzioni dell’immortalità. / Ormai tu non sei più, o materia vivente, / che un granito circondato da un vago spavento, / assopito sul fondo di un Sahara nebbioso; / una vecchia sfinge ignorata dal mondo noncurante, / dimenticata dalle mappe, ed il cui umore selvaggio / non sa cantare che ai raggi del sole che tramonta. (76 – Spleen – Pag. 128, 130)
In questo secondo componimento, lo Spleen assume i contorni della noia, quella che consegue dalla perdita di qualunque motivazione o investimento sull’esterno a causa di un lutto, una perdita. È una noia mortifera, svuotante, che contempla gli oggetti e i ricordi del passato sena più trovar loro un senso, appaiono ora come oggetti vuoti, ricordi vacui non più in grado di suscitare alcuna emozione, né di pianto né di gioia. Questo stato mentale di vuoto e apatia può corrispondere a una fase normale e fisiologica del lutto durante la quale prevale la rassegnata depressione per l’irreparabilità della perdita. Se il lutto può venire elaborato e risolto, attraversare queste fasi di spegnimento dell’affettività sarà solo transitorio e la persona tornerà ad essere in condizione di investire su nuovi oggetti e di rievocare i ricordi del defunto traendone non solo tristezza ma anche gioia e conforto.
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Il vuoto interiore e il narcisismo nello Spleen di Baudelaire
Sono come il re di un paese piovoso, / ricco ma impotente, giovane eppure vecchissimo, / che disprezzando i salamelecchi dei suoi precettori, / s’annoia coi suoi cani come con altri animali. / Nulla può allietarlo, né la selvaggina, né il falcone, / né il popolo agonizzante sotto il suo balcone. / La ballata grottesca del buffone favorito / non distrae più la fronte di questo crudele malato; / il suo letto di fiordalisi si trasforma in sepolcro, / e le dame del seguito, per le quali ogni principe è bello, / non sanno più trovare quale impudico abbigliamento / sia capace di cavare un sorriso da quel giovane scheletro. / Il sapiente che gli crea cose d’oro non ha mai potuto / estirpare l’elemento corrotto dal suo essere; / ed in quei bagni di sangue che ci vengono dai Romani / di cui i potenti, nei loro ultimi anni si sovvengono, / egli non ha saputo ridar calore a quel cadavere ebete / in cui, anziché sangue, scorre l’acqua verde del Lete. (77 – Spleen – Pag. 130).
In questo terzo componimento lo Spleen ci viene descritto in una diversa accezione. Il vuoto interiore qui rievocato non corrisponde al vuoto mortifero e luttuoso ma ad un’altra tipologia di stato depressivo che la mente può incontrare. Quel vuoto derivante da una vulnerabilità narcisistica del soggetto, così insicuro di sé stesso, così dipendente dalle approvazioni esterne e dal doversi conformare ad un’immagine perfetta ma anche falsa di sé, da ritrovarsi impossibilitato ad essere e mostrarsi in modo autentico.
Questa problematica caratteriale fa sì che la persona insegua costantemente successi e approvazione senza sentirsi mai realmente soddisfatta di sé, ma alimentando un penoso senso di vuoto e di falsità poiché sta basando la sua sicurezza psicologica su un’immagine superficiale, esteriore o comunque parziale di sé, inibendosi dal maturare e mostrare la sua natura più autentica. Siamo più spesso abituati, nel senso comune, a osservare solo la facciata “arrogante” del narcisismo, in realtà esiste, manifestamente o solo in potenza, anche questo risvolto depressivo, che può avere effetti dolorosissimi per la persona, ma che può rappresentare anche la sua salvezza mettendola finalmente in contatto col bisogno di aiuto.
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L’ansia nello Spleen di Beaudelaire
Quando il cielo basso e greve pesa come un coperchio / sullo spirito che geme in preda a lunghi affanni / ed abbracciando l’intero cerchio dell’orizzonte / spande una luce nera più triste delle notti; // quando la terra è trasformata in umida segreta / dove la Speranza, come un pipistrello, / sbatte contro i muri con la sua ala timida / picchiando la testa su soffitti marcescenti; // quando la pioggia, distendendo le sue immense strisce, / imita le sbarre di una grande prigione / e un popolo muto di ragni infami / tende le sue reti nel fondo dei nostri cervelli, // delle campane improvvisamente sobbalzano con furia / e lanciano verso il cielo un urlo spaventoso, / come spiriti vaganti erranti e senza patria / che si mettono a gemere ostinati. // E lunghi cortei funebri, senza tamburi né musica, / sfilano lentamente nella mia anima; la Speranza, / vinta, piange; e l’atroce Angoscia, dispotica, / pianta sul mio cranio chinato il suo nero vessillo. (78 – Spleen – Pag. 132).
Questi ultimi versi potrebbero evocare lo Spleen soprattutto nel suo versante più ansioso. Molte persone purtroppo vivono in maniera ansiosa le situazioni e possono attraversare anche lunghi periodi in cui cadono preda di attacchi di panico dove l’ansia diventa disorganizzante, tanto sul loro corpo, quanto sulla loro psiche. Questi versi forniscono una mirabile descrizione di quella che potrebbe essere l’esperienza soggettiva di chi si trova a vivere uno di questi attacchi di panico.
I versi ben riproducono la sensazione di oppressione, a volte anche di soffocamento fisico, che coglie all’improvviso. La sensazione di impotenza che coglie chi sente di perdere temporaneamente il controllo di sé. La paura di morire fisicamente (molti scambiano l’attacco di panico per un infarto ad esempio) o di impazzire psichicamente (possono essere del tutto normali sensazioni di derealizzazione o depersonalizzazione che possono tuttavia impressionare molto il soggetto).
Quanto più la persona è all’oscuro del significato esistenziale dei suoi attacchi di panico (nel disturbo da attacchi di panico queste crisi si manifestano in maniera apparentemente casuale senza connessioni evidenti con episodi o situazioni), tanto più si sentirà impotente e in balìa di questi stati. In realtà l’attacco di panico è semplicemente un segnale che la mente, in alleanza col corpo, ci manda: ci sta gridando forte, nella maniera più esuberante possibile, che qualcosa non va, che c’è qualcosa che non vediamo e di cui dovremmo occuparci, ci sta inviando un messaggio sufficientemente forte da non poter essere ignorato. Spesso, quando questi “codici” affettivi vengono decifrati e significati in un percorso psicologico su sé stessi, scopriamo che si ratta di un messaggio di vita e non di morte…
Cristina Rubano
Bibliografia
Baudelaire C. (1861), I fiori del male, trad. it. Garzanti, 1981.