È un termine molto usato, spesso abusato e frainteso, qualcuno potrebbe storcere il naso all’idea di praticare la compassione verso sé stesso o verso un altro essere umano o pensare che si tratti di blando compatimento o di molle commiserazione e autoindulgenza.
Nulla di tutto ciò, il significato di compassione affonda le sue radici nel Buddismo e occupa ad oggi un posto di tutto rispetto nelle teorie e tecniche psicologiche. Va però compreso nella sua essenza e distinto da termini e concetti con cui nulla o poco ha a che fare. E vale forse la pena chiedersi, dopotutto, a cosa serve la compassione?
Provare pena e provare compassione, due sentimenti diversi
Esercitare la compassione verso sé stessi e gli altri significa sintonizzarsi con un atteggiamento di rispettoso riconoscimento della sofferenza propria o di altri e il desiderio di alleviarlo.
Non c’è nulla di svalutante o di paternalistico nel provare compassione per una persona (o verso sé stessi), ben ce lo insegna la compassione buddista: significa accogliere con atteggiamento rispettoso e non giudicante qualunque cosa accada, qualunque cosa si manifesti nell’altro.
Praticare questa serena accettazione è banale solo in apparenza: non ci stiamo reputando migliori dell’altro né lo stiamo ritenendo meno capace o in qualche modo subordinato a noi in virtù della propria sofferenza. Anzi, il desiderio compassionevole di alleviare le sue sofferenze origina proprio da questa assenza di giudizio: là dove l’altro ha difficoltà ad accettare quel che gli accade e ad affrontarlo, noi gli rimandiamo anzitutto una piena accettazione, una indissolubile accoglienza. Se lui/lei in quel momento non può tollerare o contenere ciò che accade ci facciamo noi emotivamente contenitori della sua sofferenza. Si tratta di un concetto che ha molto in comune con l’essere empatici, empatia e compassione non sono però sinonimi. Nella compassione, oltre a risuonare con la sofferenza dell’altro si è mossi dal desiderio di fare il suo bene riconoscendo e legittimando le motivazioni della sua sofferenza.
“La compassione non è una relazione tra il guaritore ed il ferito. È un rapporto tra eguali. Solo quando conosciamo la nostra stessa oscurità possiamo essere presenti nel buio degli altri. La compassione diventa reale quando riconosciamo la nostra comune umanità.”
(Pema Chödrö)
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La compassione verso sé stessi
Imparare a sviluppare un sentimento di compassione verso sé stessi può essere una vera e propria forma di psicoterapia: alcuni approcci derivati dalla Mindfulness fanno di questo concetto proprio l’asse portante esplicito del lavoro terapeutico.
Ogni forma di percorso interiore volto all’accettazione di sé dovrebbe consentire di sviluppare una quota di simpatia, empatia e compassione verso sé stessi. Spesso questi ingredienti mancano, o non sono presenti a sufficienza, nelle persone dotate di elevata autocritica, che si valutano in base a severi standard morali o che rifiutano ogni proprio errore o debolezza come inammissibili prove di vulnerabilità. Le persone che insomma, per un motivo o per l’altro, mirano ad apparire agli occhi degli altri come “tutte d’un pezzo” potrebbero aver molto da apprendere dalla pratica di una serena accettazione di sé stessi, anche dei loro peggiori difetti, anzi soprattutto di quelli!
In ogni persona che si giudica con disdegno o spietatezza c’è un bambino che non si è sentito sufficientemente confortato, rassicurato, incoraggiato nelle proprie naturali difficoltà; un bambino a cui magari si è troppo presto parlato con il linguaggio degli adulti o a cui non si è parlato affatto lasciando che le paure e le incertezze non avessero modo di essere comprese e accolte. Quelle paure sono ancora dentro di noi, inalterate, ogni volta che la vita rischia di metterci in difficoltà, ogni volta che tentiamo caparbiamente di scacciarle, rinchiuderle in un anfratto della nostra mente, ignorarle…
La compassione verso sé stessi implica un grande processo di coraggio, onestà e rispetto non solo per le persone che sentiamo di essere oggi e per chi vorremmo essere un domani, ma anche per il bambino che siamo stati che, se rassicurato e ascoltato, può avere ancora molto da insegnarci. Guardare ai nostri personali difetti, ai nostri “imperdonabili” errori, alle nostre ingombranti mancanze non significa perdonarle con un gesto di indifferente autoindulgenza. Significa guardare tutto questo come si guardano gli occhi spaventati di un bambino a cui non serve dare spiegazioni, ma raccontare una storia…
“È nel momento in cui mi accetto così come sono che io divengo capace di cambiare”
(Carl Rogers)
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Cristina Rubano