Essere padre oggi significa ricoprire un ruolo non scontato, che ogni genitore è chiamato ad improvvisare, personalizzare, reinventare cercando quel mix tra innovazione e tradizione che meglio si adatti alla propria personalità. Sono lontani i tempi del “padre padrone” o del “capo famiglia”, i ruoli di genere sono più sfumati e complessi di quelli del passato. Ai padri oggi è richiesto di partecipare sia materialmente che affettivamente alla vita dei figli, fin dalle fasi più precoci. Può non essere facile, non ci sono modelli precostituiti, i propri padri sembrano appartenere ormai ad un’altra epoca…
Leggi anche —> Il significato psicologico della figura del padre nel mondo
Non è facile dunque costruire un dialogo con sé stessi prima e con i propri figli poi, perché le parole sfuggono, non hanno tempo di essere soppesate e maturate mentre tutto avviene velocemente, mentre quel figli crescono e poi un giorno imboccano la via dell’adolescenza viaggiando ad un ritmo che può sembrare insostenibile per la mente e il cuore di un genitore che li percepiva ancora bambini.
Per questo scrivere, scrivere una lettera al proprio figlio o alla propria figlia può essere uno strumento di avvicinamento e di crescita. Alcuni forse recapiteranno effettivamente la propria missiva al mittente, per altri potrà sembrare più funzionale tenere per sé questa sorta di corrispondenza segreta grazie alla quale la propria anima riuscirà a modellarsi e ad accordarsi con i cambiamenti dei propri figli e quelli richiesti a sé stessi.
Leggi anche —> La lettera da scrivere alla propria madre
Scrivere una lettera ad un figlio
I libri possono rappresentare uno spunto prezioso, ne esistono molti scritti in forma epistolare dove i padri si rivolgono ai propri figli raccontando loro una storia, confessando i tumulti della propria anima o cercando di trovare lo spazio e il tempo per impartire loro quegli insegnamenti per i quali la vita di ogni giorno sembra non lasciare mai abbastanza spazio.
Scrivere una lettera a un figlio è un ponte che si lancia e che può valere una vita intera: quella missiva potrà restare nel tempo, ed essere letta e riletta negli anni a venire, rivelando magari il suo contenuto solo poco alla volta.
Che sia una lettera di scuse, le parole di una padre malato alla figlia, o di un papà lontano dalla figlia o dal figlio; nei libri e in particolare nei romanzi epistolari sono molte le frasi per genitori che possono ispirare un padre a prendere carta e penna – o pc e tastiera – e iniziare a dialogare e a raccontarsi.
3 meravigliose lettere dedicate ai figli
Ecco alcuni suggerimenti di lettura e alcuni stralci da cui lasciarsi ispirare.
1- Prima che tu venga al mondo: la “gestazione” di un padre
“Quando è stata l’ultima volta che ho fatto qualcosa per la prima volta? Sala d’aspetto. Fuori piove un’acqua tiepida, caraibica. Accanto a me una signora diplomata in luoghi comuni racconta al telefono di come il clima sia cambiato e di quanta incoscienza ci voglia oggi per mettere al mondo un bambino. Tu e tua madre siete già in sala operatoria e io sto aspettando che mi autorizzino a raggiungervi. Inganno l’attesa leggendo notizie di calciomercato (…) Chiudo gli occhi e vedo mio padre, in un’altra epoca e in un’altra città, seduto davanti a una porta chiusa, oltre la quale sto per venire al mondo. E finalmente mi sento simile a lui. Un amico ha scritto: La vita è un gioco e vince chi rimane bambino. Ho giocato a rimanere bambino tutta la vita, ma tra poco arriverai tu e non potrò più permettermelo. Un momento. Che cos’è, esattamente, che non potrò più permettermi? Di rimuovere, di scappare, di specchiarmi nelle mie paure. Questo abito che indosso da sempre e che all’improvviso mi sembra diventato troppo stretto, o troppo largo, ha un nome preciso. Infantilismo. Non c’entra niente con la bambinitudine. La bambinitudine è lo stato di grazia che i bambini possiedono in modo inconsapevole e gli adulti si sforzano per il resto dei loro giorni di ritrovare. Non è un concetto, ma una predisposizione dell’anima alla scoperta. A vivere ogni volta come se fosse la prima. Le parole che più le si avvicinano sono: intuizione, presenza, stupore. Che cosa ci spinge a ubriacarci, a ballare, a smarrirci dietro a un miraggio o dentro una passione, se non il goffo desiderio di recuperare la dimensione bambina che abbiamo perduto? Vorrei cercare di riprendermela, però in modo consapevole. Proverò a osservarti. E a imitarti (…) Entrerò nella macchina del tempo per sforzarmi di guardare il mondo con i tuoi occhi. Sarai la mia fonte di ispirazione. La vita è un gioco e vince chi ritorna bambino. Ma, per riuscirci, dovevo prima diventare adulto.”
(Massimo Gramellini. Prima che tu venga al mondo. Solferino, 2019)
Questo libro di Massimo Gramellini è una bellissima lettera, da leggere tutta d’un fiato, che l’Autore scrive in attesa della nascita del suo primo figlio. Un’attesa fatta di rivisitazioni del proprio passato familiare, del rapporto col proprio padre, di confronti con la propria difficoltà a riconoscersi adulto e non più “figlio”, di sensazioni di stupore, meraviglia, paura e inadeguatezza che Gramellini riesce a raccontare con velata ironia, apparente leggerezza e un’acuta intelligenza emotiva. Un libro in cui potranno riconoscersi molti uomini “in attesa”, sulla soglia dell’avvio della propria paternità.
2- Non ti muovere: lettera di un padre a una figlia
“Qualche volta tu e i tuoi amici attraversate a piedi l’isolato e vi interrate in quel pub all’angolo, quel budello fumoso sotto il livello della strada. Ho infilato gli occhi una volta, dall’alto, dentro una di quelle finestre basse sul marciapiede, vi ho visti ridere, abbracciarvi, schiacciare le cicche nel posacenere. Ero un cinquantenne elegante e solo a spasso nella notte e voi eravate lì in basso oltre quelle finestrelle con le grate dove i cani si fermano a odorare, eravate così giovani, così serrati. Siete bellissimi, Angela, volevo dirtelo. Bellissimi. Vi ho spiati, vergognandomi quasi, con la stessa curiosità con cui un vecchio guarderebbe un bambino che scarta un dono. Sì, vi ho visti scartare la vita, là sotto, in quel pub denso di fumo. (…) Da quindici anni abitiamo la stessa casa. Conosci il mio odore, il mio passo, il modo in cui tocco le cose, la mia voce priva di squilibri, conosci i lati morbidi del mio carattere e quelli ostili, talmente irritanti da diventare indifendibili. Non so che idea ti sei fatta di me, ma posso immaginarla. L’idea di un padre responsabile, non privo di un suo sardonico senso dell’umorismo, ma troppo appartato. Sei legata da un sentimento saldo a tua madre, iroso a volte, ma vivo. Io sono stato un completo da uomo, appeso a lato della vostra relazione. Più che la mia persona, di me hanno raccontato le mie assenze, i miei libri, il mio impermeabile all’ingresso. È un racconto che io non conosco, scritto da voi con gli indizi che vi ho lasciati. (…) Lo so, Angela, per troppi anni i miei baci, i miei abbracci sono stati goffi, stentati. Ogni volta che ti ho stretta, ho sentito il tuo corpo scosso da un fremito d’impazienza, se non addirittura disagio. Non ti ci ritrovavi, ecco tutto. Ti è bastato sapere che c’ero, guardandomi in lontananza, come un viaggiatore appeso a un finestrino di un altro treno, scialbato da un vetro.”
(Margaret Mazzantini. Non ti muovere. Mondadori, 2001).
Questo romanzo di Margaret Mazzantini è una dedica alla figlia del protagonista, che si ritrova imprevedibilmente anch’egli in attesa, un’attesa molto più struggente: quella dell’esito di un delicato intervento chirurgico durante il quale la figlia quindicenne, dopo un incidente col motorino, sta lottando tra la vita e la morte. E con lei, tra la vita e la morte, lotta suo padre, Timoteo, medico chirurgo, per la prima volta inchiodato alle sedie della sala d’attesa del suo ospedale che riflette sulla propria vita, sui propri errori e rimpianti di padre e di uomo. Una lettera commovente di un padre apparentemente defilato, affettivamente poco presente che cerca dentro di sé disperatamente un modo per comunicare con questa figlia, così diversa da sé, nella speranza che quelle parole arrivino a lei, rintanata in un altrove da cui potrebbe non ritornare.
3- Il Perimetro dell’Amore: Lettera al figlio da un padre assente
“Dormi, Matteo, dormi. Intanto io ti parlo. Non ascoltare le parole, perché ciò che ho da dirti è difficile e grande, e non si ascolta con le orecchie, né con il cervello. (…) In tutti questi anni siamo stati vicini facendo cose da maschi, per quanto possano essere vicini due uomini con quarant’anni di differenza. Ma non abbiamo trovato il tempo per raccontarci i sentimenti. Forse perché, in realtà, non eravamo vicini come credevo? O, forse, perché l’amore non si racconta? Non si insegna ad ascoltare il cuore che batte, a pensare che una donna sia tutto o niente? Magari non si insegna a rialzarsi dopo una delusione, o a corteggiare una ragazza? Non si insegna a piangere e a consolare? Forse volevo essere rispettoso e, da lontano, guardarti crescere, mi è mancato il coraggio di insegnarti… Nessuno l’ha insegnato a me, sono un autodidatta dei sentimenti, come tutti quelli della mia generazione. (…) Vorrei insegnarti a sentire i sentimenti, a non controllarli troppo, ad assecondarli. Sai, i sentimenti normalmente non sono pericolosi, hanno la loro saggezza che ti porterà laddove tu già sei e non sai di essere. Bisogna essere coraggiosi per arrendersi e lasciarsi portare da loro. Ma, nel contempo, bisogna essere forti per non farsene schiacciare (…) Ti auguro di innamorarti, ma non spesso, non sempre. Non di chiunque, perché saresti soltanto innamorato dell’idea dell’amore. Ma neppure dovrai idealizzare l’amore a tal punto che nessuna donna reale sia degna di viverlo accanto a te. Ti parlo di esperienze che ho vissuto sulla mia pelle in maniera bruciante. C’è stato un tempo in cui mi sentivo così speciale che credevo, inconsciamente, che nessuna donna potesse davvero starmi vicino. E ce n’è stato un altro in cui ho sprecato dei “Ti amo” come se fossero coriandoli buttati nel carnevale che stavo vivendo, inconsapevole di parlare all’amore ideale e non a quella malcapitata di passaggio. Ti auguro di innamorarti non di una donna perfetta – non credo che esista – ma di una donna che tu veda bellissima, che ti stupisca, ti faccia camminare leggero e ti guardi con occhi indulgenti. E che ti succeda, anche solo per un giorno, per sapere che cosa sia e non rinunciarvi mai più. (…)
Parlo sottovoce per non svegliarti, Matteo, e anche perché le mie parole ti giungano come un suono lontano. Perché dovrai fare da solo. Io ci sarò, con il mio esempio, con la vicinanza e l’ascolto. (…) Ti auguro l’amore, solo questo posso dirlo a voce alta, urlarlo addirittura. Prego che tu sappia viverlo nel presente, senza temerne quotidianamente la fine, né progettare troppo futuro, ma nutrendolo di cure e attenzioni, rinnovandolo, sottolineando le cose belle che condividi e coltivando la curiosità verso l’altro, consapevole, soprattutto, del tesoro che possiedi. Allora, stanne certo, amerai.”
(Giampiero Attanasio. Il Perimetro dell’Amore: Lettera al figlio da un padre assente. Giraldi Editore, 2014).
Nessuno si prende la briga di immaginare che, come si insegna ad andare in bici senza rotelle, a rialzarsi dopo una caduta o a nuotare al mare, ad un figlio, maschio per giunta, si possa o si debba insegnare qualcosa sui sentimenti o sull’amore. Giampiero Attanasio si è preso, felicemente, questa “licenza” scrivendo questo libro che vuole essere una lunga lettera, sussurrata sottovoce, al figlio adolescente. Perché sottovoce? Perché, come Timoteo, sente di poter raggiungere il figlio solo in via indiretta, comunicando con lui in quell’altrove del sonno in cui è addormentato, con la speranza che quanto dirà arriverà non alla coscienza ribelle e insofferente del ragazzo adolescente, ma al cuore di lui. Un padre che prova a parlare “da uomo a uomo” di amori, delusioni e appagamenti sentimentali, senza relegarli ad argomenti esclusivamente “femminili”, ma dando loro la legittimità di essere inclusi anche fra le “cose da maschi”.
Cristina Rubano