Di cosa si pentono le persone in punto di morte?
Il rimorso numero uno, secondo la scrittrice australiana Bronnie Ware, è non aver avuto il coraggio di vivere la vita che si voleva, ma quella che ci si aspettava dagli altri.
Soprattutto le donne.
La depressione è una delle maggior disabilità per le donne occidentali, così come l’abuso di alcolici o droghe per gli uomini. Circa 4 mila persone ogni anno si tolgono la vita in Italia, e per ogni persona che riesce a suicidarsi, molte altre ci hanno provato non riuscendoci.
La maggior parte di queste persone aveva un lavoro, aveva quella solidità economica e lavorativa che ci aspettiamo essere alla base della felicità.
Non lo è. O almeno non lo era per me.
Ho lasciato un lavoro a tempo indeterminato, ben pagato, statale, sicuro, full-time.
No, non sono ricca.
No, non avevo un altro lavoro sicuro ad attendermi.
No, non ho sposato una persona che poteva mantenermi.
No, non ho figli (ma ho diversi animali domestici che devo continuare a mantenere, in salute e malattia)
No, non sono affatto vicino all’età della pensione.
E nessuna falsa illusione. Nessun: “Sono ripartita da zero e in poco tempo ho fatto milioni!”
I sogni si pagano spesso anche in soldoni, in insicurezze, ristrettezze, vere e proprie miserie a volte.
Appartengo a quella categoria di 5 milioni di italiani che vive sotto la soglia della povertà.
Eccomi.
Ma sono qui e sto vivendo il mio sogno ora, e mi sveglio e vado a dormire con quella strana felicità o pace mentale che non si può comprare con un Martini, una vacanza all’estero, due paia di scarpe nuove e una cena al ristorante, ma quella gioia interna che ti ricorda ogni mattino che stai vivendo la TUA vita e quella di nessun altro, che se tu dovessi morire oggi, non avresti rimpianti, che anche andasse tutto a rotoli e dovessi gettare la spugna e andare a supplicare la carità, almeno avrai dato tutto il tuo meglio, e quando eri al meglio.
L’Italia è una repubblica fondata sul lavoro, sul sogno del posto fisso.
Forse la fondazione dovrebbe essere un’altra.
Non il posto fisso, ma la passione mobile.
Non il posto fisso, ma la creatività libera.
Non il posto fisso ma l’idea fissa che la libertà di essere chi siamo valga più di qualsiasi certezza economica ottenuta mentre lavoriamo per realizzare il sogno di altri, le aspettative di altri.
La parola “FISSO” non fa rima con “serenità”, “gioia”, “entusiasmo”.
Al contrario, tra i suoi sinonimi troviamo “inchiodato”, “trattenuto”, “bloccato, “interrotto”.
Ripenso a com’ero, a com’erano e come sono molti ex colleghi, e non trovo vocaboli più appropriati.
E non è affatto facile schiodarsi, scollarsi da una piovra apparentemente benevola, alzarsi da una poltrona così comoda e soporifera.
Il mio “basta” non è arrivato dall’oggi al domani, è stato sudato, è arrivato dopo titaniche battaglie contro le forze dell’establishment familiare (che lottano quasi sempre contro ciò che spezza la stabilità), e dopo una pesante battaglia contro quella forza di gravità demoniaca e deprimente chiamata “quieto vivere”.
Il giorno delle dimissioni mi aspettavo uno strappo doloroso, una giornata di pianti e stridore di denti, un cielo grigio con lampi e tuoni, senso di disperazione e ansia nel cuore, pesantezza nella testa, un cuore diviso a metà e la paura a seguirmi come un cagnolino al guinzaglio.
E invece è stato uno dei giorni più sereni della mia vita.
Tutto è fluito come in un film.
Sono uscita dall’incontro con il mio datore di lavoro con la gioia che nasce dal sapere che stai per apprestarti a fare quello che sei venuto su questo pianeta per compiere, per mettere a frutto i doni che ci sono stati dati, farli fruttare, proprio come quei denari consegnati ai suoi servi dal famoso padrone nella Bibbia.
Non avevo mai capito la parabola dei talenti fino ad allora.
Un servo aveva tenuto i soldi sotto il materasso.
Un altro li aveva investiti.
Ed ecco tornare a casa il padrone.
Il servo più fedele di tutti, non avevo dubbi, era quello che aveva accudito i talenti al meglio, non toccandoli, non rischiando che il loro proprietario trovasse al suo ritorno neppure un centesimo in meno.
“Come si era permesso l’altro invece di investirli?”, mi chiedevo da adolescente.
E invece il signore torna e premia proprio il servo che aveva OSATO rischiare anche di perdere tutti i talenti…
“Colui che aveva ricevuto cinque talenti, ne presentò altri cinque, dicendo: Signore, mi hai consegnato cinque talenti; ecco, ne ho guadagnati altri cinque. Bene, servo buono e fedele, gli disse il suo padrone, sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone“.
Quel servo che invece aveva ricevuto un solo talento e che si era assicurato di non perderlo facendo una buca nel terreno e nascondendolo, aveva perso anche quello.
E così, ho deciso di investire anch’io i miei cinque talenti.
Non potevo più rischiare di vivere una vita a metà, part-time, non autentica, in attesa della carota della pensione, della tredicesima, del bonus una-tantum.
Ho detto “basta”, ho tagliato come la Dea Atropo con le sue forbici il filo del mio falso destino, per ritessermene un altro con un filo più verace, forte, colorato.
E miracolo… quando si va nella direzione giusta, il destino ti viene incontro, ti tende la mano.
E anche se non sempre in quella mano si nasconde un aiuto economico, ti strizza l’occhio e ti regala ENTUSIASMO.
Dal greco “en”, dentro, e “thèos”, divinità, uno stato di ispirazione divina.
Ed è l’entusiasmo il sale della vita.
Amavo il mio lavoro?
Sì. Molto.
Perlomeno quando riuscivo a fingere di non vedere certe ingiustizie, certi sprechi di tempo, di personale, di… talenti.
Ma mi era sempre più chiaro che non fosse il MIO lavoro, che ero solo lì a coprire un posto che altri – anche meglio di me – avrebbero potuto ricoprire dal giorno dopo, senza il minimo scossone al sistema, senza alcun cambiamento reale nella vita di nessuno.
Uno schiavo al posto di un altro, e via con la catena di smontaggio anime.
Usando le parole della scrittrice Emily Bronte, l’ “amore” per il mio lavoro era paragonabile “alle foglie nei boschi: il tempo lo cambierà, come l’inverno cambia gli alberi“.
Il mio amore invece per la passione che seguo ora e che mi chiamava fin da piccola “assomiglia all’eterna roccia al di sotto di quegli alberi: una fonte di delizia poco visibile, ma necessaria“.
Emily Bronte capirebbe bene di cosa sto parlando.
Ha fatto soldi questa scrittrice?
No.
E’ diventata famosa?
Non nel suo secolo.
Ha vissuto la SUA vita però?
Assolutamente sì.
Unicamente sua.
Totalmente sua.
Inimitabile, impareggiabile, incomparabile, straordinaria.
E’ stata se stessa fino in fondo.
QUESTO è stra-ordinario… e difficilissimo.
Perchè seguire i propri sogni più veri vuol dire conoscersi bene a fondo, o si rischia di inseguire solo chimere o giocare con la vita, propria o degli altri. E vuol dire essere pronti a sudare sette camicie, a lavorare 12 ore al giorno, pedalare, faticare…
A volte non so ancora dove ho trovato la forza per il taglio finale. Le paure erano tante, cancerogene come tarli. So solo che a un certo punto ho capito che la liberazione non sarebbe arrivata da nessun Principe Azzurro, da nessun colpo di fortuna al lotto, da nessun agente esterno, e che non potevo continuare a contare, come tutti i colleghi, gli anni che ci separavano dal momento della liberazione, le giornate che ci separavano dal fine settimana, o le ore che mancavano al suono della campanella per timbrare.
Chi mi ha aiutato?
Madama Depressione avvicinandosi da una parte, spingendomi verso la pista di decollo, e Messere Entusiasmo e fiducia in me stessa dall’altra a venirmi incontro, accendendomi i motori.
Più qualche preghiera alla Madonna, alla Dea, a Madre Terra, alla mia parte più pura.
Ed ecco.
“Con la presente informo che a decorrere dalla data ……….. terminerò il mio servizio per dimissioni volontarie.…”
Zac.
Taglio.
Sono fuori.
Sono libera.
Sto vivendo la MIA vita.
Sto seguendo una passione poco pagata, ma impagabile, una vita armonica, dove tutto fluisce, anche se non più secondo la fluidità della routine che torna e ritorna sempre su se stessa, ma un fiume in piena che mi porta sempre verso nuovi obiettivi e nuove avventure, difficili da prevedere ma eccitanti da visualizzare.
Una vita che non mi garantisce nessuna carota a fine corsa, ma neppure nessuna frustata per continuare, come un criceto in gabbia, a farmi correre sulla ruota.
Dovessi morire oggi, non avrei nulla da recriminare.
Ho già vissuto per anni il mio sogno ed è stato… magico.
Direi a tratti “divino”, ma qualcuno direbbe che sto esagerando.
Ma finchè continueremo a dimenticarci di essere figli e figlie delle stelle, con un potenziale enorme, allora continueremo a credere che sia un’esagerazione la nostra divinità.
Mi è stato detto che sia una follia lasciare un posto fisso in un periodo di crisi, in cui così tante persone farebbero carte false per averlo.
Forse.
Ma proprio perché siamo in un periodo di crisi, ho trovato più facile lasciare false certezze.
La sicurezza della pensione è ormai poco più che un gioco semantico in bocca ai politici.
La certezza del futuro non è mai esistita, per nessuno – tranne la morte.
Il posto fisso è sempre meno fisso e non vi è alcuna garanzia né di trovarlo, né di non perderlo per chi ce l’ha e se lo tiene stretto. Gli errori si fanno, i licenziamenti sono legali, le malattie che rendono disabili nel corpo e non più in grado di seguire le proprie passioni sono dietro l’angolo (così come la demenza senile da vecchi, quando pensiamo comincerà la nostra vita “da liberi”).
La vita è adesso. Non potevo rischiare di aspettare la pensione per cominciarla.
La vita è unica. Non mi andava più di vivere quella di altri, o approvata dagli altri.
La vita è un dono divino. Non sopportavo oltre di sprecare i talenti che mi erano stati donati.
La vita è breve. Non riuscivo più a perdere un altro giorno senza inseguire i miei sogni.
La vita è magica. Non vedevo l’ora di scoprire cosa mi attendeva dietro l’angolo.
Ecco perchè ho lasciato il mio lavoro fisso, perchè “arriva il giorno in cui il rischio di rimanere chiusa in un bozzolo è più doloroso del rischio che serve per sbocciare“.
Aida Vittoria Eltanin