E’ un fenomeno che dal Giappone si sta diffondendo ovunque, anche in Italia. Sarebbero circa 30mila i casi di giovani che si chiudono in casa, per l’esattezza in camera, per mesi o anni, uscendo raramente, a volte mai. Si parla di sintomi caratteristici quali avversione nei confronti della società, fobia per la scuola, malinconia, utilizzo del web come unico strumento di comunicazione con il resto del mondo. Lo chiamano “disagio” e lo è sicuramente ma chi è il vero malato? Amo guardare le cose da prospettive diverse e detesto le etichette. Vale anche per gli Hikikomori, giovani classificati come “malati, depressi, disagiati“. E’ davvero così? Cerchiamo innanzitutto di capire chi sono.
Chi sono gli Hikikomori
Sono adolescenti di qualunque estrazione sociale, principalmente tra la terza media e la prima superiore, che si chiudono in camera per mesi se non addirittura anni. Perché si possa parlare di sindrome Hikikomori il giovane deve aver trascorso un periodo di almeno 6 mesi in isolamento totale, senza frequentare la scuola, il lavoro e persone al di fuori del contesto familiare. Per quanto riguarda il periodo medio di isolamento, si aggira intorno ai 39 mesi sebbene sussistano notevoli differenze. Il fenomeno è iniziato in Giappone espandendosi man mano anche in Europa e nella stessa Italia.
Nel Bel Paese i primi casi risalirebbero al 2007 e le statistiche parlano di circa 30mila ragazzi. In Giappone, dove i primi Hikikomori hanno iniziato a diffondersi intorno agli anni 80′, le cifre salgono vertiginosamente con 500mila-1 milione di casi. Il termine letteralmente significa “stare in disparte, isolarsi“, e deriva da hiku, “tirare“, e komoru, “ritirarsi“. Gli unici contatti sociali di questi ragazzi passano attraverso il web e spesso hanno ritmi sonno veglia invertiti. Frequentemente presentano una vera e propria fobia nei confronti della scuola, indipendentemente dalla resa. Solitamente sono i genitori a segnalare i figli a psicologi o altri esperti attraverso richieste di intervento per trattare i ragazzi e aiutarli a uscire dal guscio. In Giappone, stando ai dati raccolti, il fenomeno si esprime in modalità più estremizzate rispetto ad altre parti del mondo e molti di loro avrebbero comportamenti violenti, anche nei confronti dei famigliari.
Gli Hikikomori e la società: chi è il vero malato?
Quando si parla di Hikikomori viene spontaneo pensare a degli adolescenti “malati”, perlomeno dal punto di vista psicologico, e alle soluzioni per aiutarli a integrarsi nella società. Ma è evidente che agli Hikikomori la società sta stretta, terribilmente stretta, e sarebbe forse più opportuno chiedersi cosa rifiutano del mondo che li circonda. Si tratta davvero di un disagio puramente individuale ricollegabile a situazioni famigliari particolari o a traumi sparsi? E se gli Hikikomori attraverso questo isolamento esprimessero una forma di ribellione nei confronti della società? Forse una ribellione distorta, che cela molte contraddizioni, ma quale ribellione non lo è?
Partiamo dal contesto giapponese dominato, a quanto pare, da una forte competizione e da una grande pressione sociale nei confronti dell’autorealizzazione, fin dalla giovinezza. C’è chi ritiene, probabilmente a ragione, che un contesto simile sia strettamente collegato all’origine di questo disagio giovanile. Tant’è che il principale sentimento degli Hikikomori non è la disperazione tipica della depressione ma il senso di vergogna dovuto all’incapacità di vivere la realtà quotidiana secondo le proprie aspettative. Maggiore è la distanza fra il proprio mondo idealizzato e la vita di tutti i giorni, maggiore è la vergogna che provano. Insomma, meglio recludersi che affrontare un simile fallimento esistenziale. Secondo lo psichiatra Satoru Saito ci sarebbe una forte componente narcisistica negli Hikikomori, dovuta forse al rapporto morboso di questi ragazzi con le proprie madri, e a un’assenza in famiglia della figura paterna, che in Giappone è spesso eccessivamente impegnata sul lavoro.
Alcuni esperti sostengono che il problema dipenda da un uso distorto ed eccessivo del web ma personalmente la ritengo una spiegazione riduttiva. Che la dipendenza da Internet sia insidiosa non lo metto in dubbio ma gli Hikikomori mi sembrano piuttosto ragazzi che, attraverso la rete, sfogano un disagio più profondo. Non tanto legato a contesti familiari particolari ma a un rifiuto della società nel suo complesso, qualunque essa sia. Che cosa li spinge a isolarsi? Perché non sentono di appartenere alla società in cui vivono e cosa detestano di questo mondo? Perché ne sono a tal punto schifati da scegliere la reclusione? Dipende solo da un disagio individule o da qualcosa che effettivamente non funziona nel mondo circostante? E infatti c’è anche chi si domanda se il web sia la causa o piuttosto l’effetto del disagio. A tal proposito due sono le teorie principali: la prima accusa la rete, la seconda afferma che il malessere di questi adolescenti sia ricollegabile alle aspettative eccessive della società contemporanea, che in Giappone sono palesi, in Europa apparentemente meno. Eppure il disagio si sta espandendo a macchia d’olio, non dovrebbe forse indurci a riflettere? Chi è il vero malato? L’adolescente recluso o la società che gli impone di essere diverso da quello che è?
Laura De Rosa