Cibo, nutrimento, alimentazione sono tutti argomenti molto in voga su cui ci sarebbe molto da dire. Perché ciò che portiamo in tavola, e il come lo facciamo, rispecchia una moltitudine di aspetti culturali, sociali, simbolici. Le tradizioni culinarie, le regole che le caratterizzano, le abitudini alimentari di ciascun popolo non nascono a caso ma dipendono dalla sua storia. Se è vero che nutrirsi è un’esigenza di tipo biologico, il modo in cui si risponde a questa esigenza è di tipo sociale. Le modalità di nutrimento ci parlano dell’identità di ciascuna etnia, il cibo riflette la struttura della società assumendo significati di volta in volta diversi. La condivisione dei pasti è un gesto rituale che ha a che vedere con l’integrazione sociale e famigliare, come suggerisce Sepilli.
Il consumo di carne ha un valore altamente simbolico e quasi ovunque si intreccia con la religione, non a caso esistono molti tabù e divieti relativi agli alimenti animali. Basti pensare al divieto islamico di mangiare carne di maiale o agli Induisti che non si nutrono di carne di mucca, in quanto animale sacro. Alcuni studiosi come Marvin Harris, esponente del materialismo culturale, affermano che questo genere di tabù alimentari siano in realtà dovuti a vantaggi ecologici e di salute, sebbene ammantati di simbologie. Diversamente la pensa Fischler, secondo il quale la trasformazione degli alimenti in cibo e l’impiego di alcuni alimenti piuttosto che altri a seconda dei contesti culturali non dipende solo da fini utilitaristici.
L’antropologo Lévi-Strauss formulò il famoso “triangolo culinario”, che suddivide il sistema culinario in un modello triangolare con ai vertici il crudo, il cotto e il putrido. Il cotto simboleggia la trasformazione culturale del crudo, il putrido la modificazione naturale. Partendo da questo triangolo, Lévi-Strauss distingue diverse modalità di cottura, arrostito, bollito e affumicato. Analizzando tutte queste caratteristiche l’antropologo afferma che sia possibile scoprire “come la cucina di una società costituisca un linguaggio nel quale questa società traduce inconsciamente la propria struttura”. Quindi Lévi-Strauss sottolinea la stretta relazione tra sistemi alimentari e dimensione sociale.
Molti altri studiosi e antropologi si sono soffermati sulla stessa tematica affrontandola da diversi punti di vista e tra questi si annoverano i cosiddetti developmentalisti, di cui fanno parte Jack Goody, Sidney Mintz, Stephen Mennell, che rispetto a Strauss ritengono non esistano formule specifiche e costanti che regolano le abitudini alimentari, ma che sia il cambiamento sociale a determinare le preferenze alimentari dei diversi popoli nel tempo.
Vegetarianismo e veganismo si sono affacciati in Occidente negli ultimi anni in corrispondenza al crescente bisogno di pratiche culturali più sostenibili ecologicamente. In Oriente risultano diffusi nelle forme più blande mentre ne sono seguaci fedeli alcuni gruppi, per esempio i Giainisti, contrari a qualunque forma di violenza, alcuni monaci buddisti e brahmani induisti.
Teorie alternative
In “Mangiare, mangiare, mangiare” di Carla Sale, l’autrice propone una riflessione sullo strapotere dell’alimentazione al giorno d’oggi in Occidente. “Si vive per mangiare”, afferma Carla, sostenendo che larga parte del nostro tempo è dedicata al cibo, senza il quale non è tale nemmeno un incontro tra amici che, difatti, si trasforma in aperitivo.
“Sembra quasi che senza ingurgitare niente si perdano le ragioni dello stare insieme. Matrimoni, battesimi, compleanni, feste e commemorazioni, finiscono sempre tutte in grandi abbuffate collettive”, prosegue l’autrice. “Uomini e donne, giovani e vecchi, poveri e ricchi, single o sposati… il cibo bypassa ogni differenza sociale e occupa un posto d’onore nei ritrovi e nei pensieri di chiunque.”
Secondo Carla si tratta di un’oralità smodata fomentata dalla cultura della prevaricazione, volta a “favorire il sopruso, la violenza e l’abuso di pochi su tanti”. La riflessione è interessante per certi versi ma personalmente ritengo che il cibo sia importante in quasi tutti i contesti culturali e quando non si tratta di alimenti, esistono comunque rituali di riunione basati sul consumo di bevande. Basti pensare alla pausa-tè che non è peculiarità inglese ma diffusissima in molti paesi dell’Estremo Oriente, dell’Africa e del mondo arabo. Il cibo riunisce tutti a dispetto della provenienza sebbene i modi cambino di paese in paese.
Altro discorso vale per lo sfruttamento intensivo degli allevamenti e dei paesi del Terzo Mondo, le cui risorse vengono frequentemente depredate dall’Occidente e (purtroppo) non è una diceria. In tal senso si può sicuramente parlare di cultura della prevaricazione. Carla fa riferimento anche alla funzione sedativa del cibo che funziona un po’ da antidepressivo e alla malafede dell’industria alimentare che sfrutta, a suo parere, le proprietà del nostro apparato digerente per tenerci in costante stato soporifero con “banchetti, stuzzichini e rompi digiuno di ogni genere, agendo impunemente sul nostro sistema nervoso, approfittando della limitata autocritica della fase digestiva per far passare qualunque mistificazione della realtà.”
E’ risaputo che il cibo può effettivamente fungere da sedativo, tuttavia se da un lato è indispensabile adottare un’alimentazione più consapevole e rendersi conto di alcuni tranelli “psicologici” ad esso collegati, d’altro canto un atteggiamento di eccessivo rifiuto è controproducente. Il cibo è sempre stato un elemento di unione dal forte valore simbolico e continua a esserlo ovunque nel mondo, a dispetto della ricchezza economica. Il pericolo si cela a mio parere nel cosa si mangia, nel quanto si mangia, nel come si mangia ma il ruolo del cibo come “collante sociale”, diffuso capillarmente, è altra cosa.
Laura De Rosa