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La lamentela è dannosa: l'importanza di trasformarla in opportunità

Di Chiara Pasin - 30 Maggio 2016

L’universo si fonda sul concetto di dualismo: una fondamentale opposizione fra polarità positive e negative, nel senso scientifico del termine, che grazie ad un delicato equilibrio generato da una coesistenza necessaria, garantiscono l’esistenza della natura, dell’ecosistema e dell’uomo.

Nell’uomo in particolare queste forze positive e negative convergono attraverso un giudizio di tipo morale, che estremizza separando. Le forze positive sono legate al concetto di bene, gioia, serenità, entusiasmo, correttezza, etica, solidarietà, condivisione; quelle negative invece si combinano con tutto ciò che è male, tristezza, difficoltà, ansia, preoccupazione, egoismo, rancore, rabbia, diniego.

La contrapposizione fra queste due energie influenza in modo radicale la nostra esistenza, ma in modo purtroppo non ugualmente equilibrato a quanto accada nell’universo. Chissà per quale ragione – forse a causa di retaggi religiosi o sociali, che insegnano più ad essere concentrati sull’evitare o sul raggirare il male invece che a ricercare e a saper godere del bene – le persone sono portate quasi spontaneamente a crogiolarsi nella negatività, in tutte quelle situazioni che creano sofferenza. Gli argomenti di dialogo fra gli individui si basano spesso prevalentemente sulla lamentela, rimarcando cosa va “male” nella vita quotidiana, quali aspetti magari superflui non la rendono perfetta così come vorremmo, quali eventi o mancanze possano sembrano far andare tutto storto.

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Infatti, chiedendo ad una persona “come stai?” è facile notare che la tendenza generale sia sottolineare ciò che preoccupa, ciò che crea rabbia; e parlandone troppo si entra in un circolo vizioso che amplifica queste emozioni invece che scioglierle.

Troppo spesso le persone sprecano il positivo delle loro energie incanalandole in sentimenti che hanno un risvolto negativo. Ci si concentra su azioni, persone, situazioni nocive per l’anima e per la salute, invece che valorizzare e dare un peso a ciò che si ha e che si vede in un mondo che ancora potrebbe permettere di sorridere, di inventare, di apprezzare il buono e il vero, di attivare l’essenza propositiva e gioiosa che permea la nostra esistenza e di cui ogni tanto ci dimentichiamo.

E’ ben risaputo che l’orologio degli organi non fa sconti e la modalità attraverso cui ci si approccia ad una problematica o ad una vicenda qualsiasi viene filtrata e assimilata dalle cellule del corpo. Il dolore ai reni è associato a situazioni in cui si sperimenta la paura ed il pericolo, il mal di stomaco alle dinamiche che “non si riescono a digerire” (in senso dunque figurato oltre che letterale”) ed il fegato, per esempio, diventa la sede della rabbia che si immagazzina e non si riesce a lasciare andare. Un sintomo è solo la punta di un iceberg che, profondissimo, diventa il simbolo di una vibrazione di polarità negativa su cui ci si sintonizza e ci si pone perennemente in ascolto, quasi diventasse la stazione radio preferita di ogni individuo. Tutta l’incantevole bellezza, l’esplosione di una gioia, l’emozione di un gesto, la carezza di un ricordo diventa un eco lontano e dismesso, quasi un bisbiglio cui non prestare attenzione.

Questo limite umano dovrebbe essere superato imparando a prendere dall’universo, quale macrosistema da cui e per cui ogni cosa ha inizio, un paio di lezioni di vita di base. Siamo al mondo per una virgola di un tempo infinito che, dopo miliardi di processi evolutivi, ancora non sappiamo celebrare in tutta la sua pienezza. Bisognerebbe resettare il modo di pensare delle persone, agendo sull’onda di una nuova consapevolezza che rivaluta i concetti di bene e male e la loro naturale ed inevitabile esistenza, assimilandoli come una possibilità di crescita invece che un nuovo espediente per lamentarsi. Il segreto potrebbe forse essere quello di accogliere entrambe le forze in azione accettandole per quelle che sono, vivendole appieno e passandoci attraverso fermandosi a guardare bene in faccia tanto la gioia quanto il dolore che esse possono rappresentare.

Il negativo esiste come condizione necessaria, la nostra umana scelta sta nel valutare come vogliamo affrontare le conseguenze del suo passaggio, per esempio arginando una naturale preoccupazione prima che diventi ansia o trasformando un’arrabbiatura prima che questa si erga a muro d’orgoglio insormontabile. La presa di posizione ha due direzioni soltanto: si può annegare nel nero oppure riconoscere che esso non è altro che un possibile colore, in quanto tale, da trasformare per integrare. Invece che farsi prendere dal circolo vizioso di una forma mentis improntata al negativo, bisognerebbe avere il coraggio di percepirla senza restarne imbrigliati, senza restare più o meno consapevolmente ancorati alla sofferenza.

La sofferenza ha spesso uno sguardo ammaliante, un miele e veleno di cui non sempre si vuole realmente liberarsi, per necessità di essere consolati, visti, perché in tante situazioni vi è un’implicita gara a chi soffre di più e a chi continua a sopportare meglio invece che ribellarsi. Di questi tempi essere felici costa molta più fatica che soffrire, pur possedendo ogni bene, pur godendo di ogni comodità. Puntare alla felicità significherebbe ammettere ciò che si vuole riconoscendo, ciò che si è. Nonostante faccia tremendamente paura, questo è forse l’unico e puro atto di verità che l’uomo deve a se stesso per il fatto (non così semplice) di essere al mondo. L’individuo è fatto di battiti di cuore e di vita che pulsa nelle vene; il rintocco della mezzanotte è scoccato ed è ora di smetterla di sprecare occasioni usando il tempo a disposizione per intossicarci con energie e pensieri negativi.

di Chiara Pasin





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