“La civiltà di un popolo si misura dal modo in cui tratta gli animali” Mahatma Gandhi
Lo scorso maggio il Parlamento della Nuova Zelanda ha approvato un nuovo emendamento alla Carta Costituzionale per Benessere degli Animali. Nell’emendamento si riconosce esplicitamente che gli animali sono “esseri senzienti”, dotati pertanto della capacità di provare emozioni positive o negative, quali stress e dolore, e che come tali hanno diritto a essere protetti o salvati da situazioni di abuso, abbandono e violenza fisica o emotiva. L’emendamento include inoltre il divieto dell’impiego di animali per testare prodotti cosmetici.
La decisione della Nuova Zelanda è stata accolta con gioia da associazioni per i diritti degli animali in tutto il mondo, riconosciuta unanimemente come un altro passo avanti lungo il cammino per il rispetto e il benessere degli animali. E senza dubbio lo è! Tuttavia continua a stupirmi la lentezza quasi ridicola che a volte occorre per riconoscere cose ovvie. E mi insospettisco. Chiunque abbia mai avuto a che fare con degli animali nella sua vita, può facilmente riconoscere come evidente che gli animali provino emozioni, e che non occorra certo uno studio scientifico per dimostrarlo.
Avete mai avuto un animale domestico? Avete mai guardato negli occhi un maiale, o una mucca? Allora sapete di cosa parlo. Dove sta la difficoltà nel riconoscere i diritti basilari a tutela del benessere degli animali? Forse sta nel fatto che ciò limiterebbe il potere dell’uomo. L’uomo a cui piace sentirsi padrone del mondo, causa e fine di ogni cosa. Antropocentrismo: la malattia dell’uomo-bambino, che pensa di essere un re circondato da oggetti messi lì per soddisfare ogni suo desiderio.
Con “essere senziente” si intende un individuo in grado di “sentire”, cioè provare sensazioni e, per estensione, emozioni: piacere, dolore, rabbia, paura, gratitudine. Tra essere un “essere senziente” e avere una “coscienza” però, secondo le definizioni ufficiali, c’è una bella differenza. La “coscienza” infatti, implicherebbe la capacità di riconoscersi come individui separati dal resto e di sapere chi o che cosa si è. A questo proposito, la scienza sta ancora lavorando per stabilire quali animali si possano considerare, oltre che “senzienti”, anche “coscienti”.
Per fare ciò, si ricorre a esperimenti di vario genere, tra i quali il più famoso è quello dello specchio: ponendo uno specchio di fronte a vari animali, si testa chi fra essi è in grado di riconoscersi. Riconoscersi allo specchio infatti comporta per forza il sapere “chi si è” e come si è fatti. Finora il test è stato superato da delfini, orche, uomini, scimpanzé, babbuini, bonobo, alcuni elefanti e alcune specie di uccelli, tra cui le gazze.
Altro segnale della presenza di una “coscienza” sono considerati tutti i comportamenti definiti “intelligenti”, come per esempio i corvi che posizionano le noci lungo la strada, dove sanno che passeranno delle automobili, per far sì che gli pneumatici al loro passaggio spacchino i gusci.
Il fatto che anche alcuni tipi di uccelli siano in grado di riconoscersi allo specchio o di attuare comportamenti “intelligenti” ha stupito gli scienziati. Gli uccelli infatti hanno un cervello diverso da quello dei mammiferi perché privo della neocorteccia, la parte del nostro encefalo sviluppatasi più di recente e ritenuta dagli studiosi come la sede delle capacità cognitive, cioè, della “coscienza”.
Per spiegarselo, gli studiosi hanno ipotizzato che il cervello degli uccelli, pur diverso dal nostro, si sia evoluto lungo una linea diversa, sviluppando abilità simili, che avrebbero notevoli vantaggi a livello sociale, per la risoluzione dei problemi e l’elaborazione di strategie di sopravvivenza.
Queste ricerche sono interessantissime e importanti, tuttavia mi pare che in tutte via sia un approccio riduzionistico al problema. Infatti l’unico tipo di intelligenza che prendono in considerazione è quella cognitiva, particolarmente sviluppata nell’Homo sapiens e caratterizzata da razionalità, capacità di calcolo, riconoscimento di catene causa-effetto e risoluzione di problemi di tipo logico. Ma è risaputo ormai da anni -da quando il bellissimo libro Intelligenza emotiva di Daniel Goleman si diffuse presso il grande pubblico negli anni Novanta – che l’intelligenza cognitiva rappresenta solo una piccola parte della gamma di intelligenze possibili, e forse tutto sommato nemmeno la più utile.
Goleman raggruppa nell’insieme “intelligenza emotiva” tutti quei talenti e abilità che non sono legati all’aspetto razionale e di calcolo ma che sono tuttavia fondamentali per la vita e il cui comune denominatore è l’empatia. Empatia (dal greco en-pathos, cioè “sentire dentro”) è la capacità di provare le stesse emozioni che prova chi si trova vicino a noi, la capacità di immedesimarci, di sentire ciò che sente lui e quindi di comprenderlo. E’ ciò che ci permette di comunicare, amare, provare compassione e solidarietà, o anche di capire le battute divertenti.
A quanto pare nel nostro cervello sono presenti i cosiddetti “neuroni specchio”, i quali fanno in modo che, quando vediamo qualcuno piangere, o ridere, o provare un’emozione qualunque, anche nel nostro cervello si attivino le stesse aree di dolore o piacere, in modo che noi in un certo senso proviamo le stesse emozioni di chi ci sta di fronte. Questo ci permette di capire i comportamenti altrui e di “sentirli dentro” di noi.
L’uomo si è sempre considerato superiore agli animali soprattutto perché dotato di intelligenza cognitiva. Ma l’intelligenza cognitiva, per quanto importante, è solo un’intelligenza strumentale. Non ci rende felici. Anzi, molto spesso ci complica stupidamente la vita. Sono gli altri tipi di intelligenza, quelli empatici, a permetterci di comunicare con il prossimo e vivere vite piene e gratificanti. Sono questi tipi di intelligenza che dovremmo cercare di sviluppare. La mancanza di empatia è ciò che ha permesso ai nazisti di compiere gli atti che hanno compiuto ai danni della popolazione ebrea. Da esperimenti condotti in seguito su ex-gerarchi nazisti è stato rilevato come questi non provassero alcun sentimento (nel loro cervello non si attivava nessuna area) nel vedere scene di violenza o di dolore inflitto ad altri uomini.
La mancanza di empatia è stata riscontrata anche nei cervelli di individui che avevano commesso crimini contro le persone, quali torture o stupro. Ciò spiega in parte il perché sono stati capaci di farlo: nel loro cervello non succedeva nulla quando vedevano la vittima piangere o urlare. Non gli si accapponava la pelle al pensiero del dolore immenso che stavano infliggendo a un altro essere vivente. Non lo sentivano nella loro carne.
Secondo me, quando si parla di coscienza, non bisognerebbe tanto concentrarsi su quella degli animali – che ovviamente ce l’hanno anche se diversa dalla nostra: basta utilizzare l’uomo come unità di misura di ogni cosa, l’uomo è solo una parte del Tutto e se qualcosa gli sfugge, o non riesce a misurarlo con il metodo scientifico, questo non significa che questo qualcosa sia inesistente o privo di valore. Parlando di coscienza secondo me sarebbe più opportuno parlare di quella umana.
Come possiamo tollerare che altri esseri viventi, chiaramente in grado di provare sensazioni ed emozioni, vengano sottoposti sistematicamente a torture, abusi di ogni genere, prigionia, sfruttamento, operazioni chirurgiche immotivate, mutilazioni, avvelenamenti, degrado, abbandono e morte, senza porci nessun problema?
Il problema qui non è se gli animali siano coscienti o meno. Il problema è che uso faccia l’uomo della sua, di coscienza.
Non sto parlando di “coscienza cognitiva” ma della coscienza che deriva dalla consapevolezza del far parte di un sistema, della coscienza che provocare dolore volontariamente è mostruoso, a prescindere dalla struttura cerebrale della creatura a cui ciò viene inflitto. Come possiamo non provare, vedendoli soffrire, ciò che provano loro? Ci tappiamo gli occhi e ci nascondiamo dietro al dito esile di leggi e definizioni scientifiche, calcoliamo il quoziente intellettivo di qualunque cosa… Non è questa un’enorme negazione? Una negazione immensa che prima di tutto fa del male a noi stessi?
Reprimiamo nel nostro inconscio l’evidenza del dolore che siamo capaci di procurare e in questo modo garantiamo la sopravvivenza di un sistema sociale basato sulla sottomissione e lo sfruttamento del più debole. Schiavitù, subordinazione delle donne, abuso sui minori: tutte cose che un tempo erano considerate perfettamente “naturali” oggi finalmente sono state riconosciute come obbrobri anche dall’opinione pubblica. Quanto ci vorrà prima che il “mondo” apra gli occhi anche sulla realtà dello sfruttamento animale? Quante ricerche scientifiche, quanti encefalogrammi, quanti test dobbiamo ancora svolgere? Per quanto tempo ancora vogliamo continuare a violentare la Terra e noi stessi, prima di riuscire ad ammettere che il fatto che una cosa sia “possibile” non la rende automaticamente “giusta”?
E’ facile abusare del più debole: non si può difendere, non ha le nostre armi, e noi avremo sempre la voce più grossa per mettere a tacere il suo lamento e sostenere davanti al mondo che abbiamo diritto di farlo perché l’altro è “un animale”, “privo di intelligenza”, “dominato dagli istinti”, “incapace di provare sentimenti” (tutte definizioni attribuite nella storia anche alle donne e ai neri).
E’ facile, certo, e la tentazione di farlo è forte. Ma visto che l’uomo è dotato del meraviglioso talento dell’intelligenza cognitiva, che gli ha permesso di sviluppare tecnologie complesse e di mettere a punto invenzioni che hanno migliorato moltissimo la sua qualità di vita (e anche alcune che l’hanno terribilmente peggiorata), perché non mettere a frutto questo dono per espandere il benessere, per elevare la qualità di vita globale, per creare effettivamente quel “mondo migliore” che tutti sogniamo?
Perché la bomba nucleare e le astronavi sì, e un sistema per testare i farmaci senza ricorrere all’uso di animali no? E’ davvero così difficile da trovare? No. Il punto è che non ci sono gli interessi. E questo punto ci porta a un altro punto: la grande evoluzione che negli ultimi secoli ha investito l’intelligenza cognitiva non sempre è andata di pari passo con l’evoluzione dell’intelligenza emotiva. Per questo troviamo strumentazioni e armi sviluppatissime in mano a persone prive di coscienza. E poi andiamo a misurare la coscienza degli animali.
Recentemente ho visto un video bellissimo, che mostrava un fotografo alle prese con un branco di lupi siberiani cresciuti in una riserva. I lupi giocavano con lui e fra di loro come cuccioli. Non mostravamo alcun segno di aggressività, anzi trattavano il fotografo come uno di loro, dandogli zampate e piccoli morsi e cercando carezze.
Questo video mi ha fatta pensare che, in effetti, la Natura non è mai cattiva. Non esistono “belve feroci” e pericolose da uccidere o mettere in gabbia. E’ il bisogno, la fame, la solitudine e in ultima istanza la mancanza di comunicazione e di amore a causare l’aggressività. Anche l’animale più spaventoso, se aiutato, amato e provvisto di cibo a sufficienza, abbandonerà la sua aggressività. Qualunque essere vivente preferisce l’amore e il gioco alla ferocia. E’ la paura di morire a renderci “cattivi”. L’ansia per la sopravvivenza.
L’uomo ha la possibilità di mettere le sue capacità tecnologiche e spirituali al servizio dell’evoluzione, non solo della sua, ma di quella di tutta la Terra. L’uomo ha la possibilità di scegliere se continuare a essere il “piccolo padrone” della Terra, oppure diventarne il grande Custode, offrendo il suo ingegno, la sua immaginazione, la sua capacità logica ed empatica per far sì che tutti gli esseri viventi percorrano insieme il cammino verso una convivenza di pace. L’uomo lo può fare. Può aiutare gli animali a vivere una vita non più dominata dalla paura e dalla necessità, ma pervasa dalla libertà di amare e di fare nuove esperienze.
Se noi parliamo e interagiamo con un bambino fin da quando è piccolo, è “scientificamente provato” che questo bambino svilupperà un’intelligenza e un’autostima maggiore di un bambino che ha ricevuto poche attenzioni. Lo stesso vale per gli animali: se parliamo e giochiamo con i nostri animali domestici, per esempio, questi svilupperanno capacità comunicative ed empatiche che altrimenti resterebbero latenti, non manifestandosi mai.
Se noi comunichiamo e amiamo qualcuno o qualcosa, il nostro amore nutre questo qualcuno o qualcosa, espandendo la sua coscienza e sviluppando in lui caratteristiche che gli permettono di vivere una vita molto più ricca di sfumature, esperienze e gratificazioni. Un essere umano, un animale o anche un vegetale deprivato di contatto e isolato, deperisce, si atrofizza, perde il desiderio di vivere e infine muore.
E quando muore, non soltanto qualcosa al di fuori di noi smette di esistere, ma anche qualcosa in noi si spegne. E’ una possibilità mancata, un’occasione evolutiva perduta, una vita buttata via.
Quanto dolore dovrà ancora scorrere attraverso le nostre vene, quanto veleno ancora vogliamo versare nelle vene della Terra, prima di poter finalmente riconoscere che sì, abbiamo tutti una coscienza, e questa coscienza ci serve precisamente per questo: migliorare la nostra vita e cioè la vita che ci circonda, perché non siamo sistemi isolati ma fili di una rete che tutto connette. La felicità degli altri è anche la nostra, il dolore degli altri è dolore che infliggiamo a noi stessi.
E a cosa serve l’intelligenza, se non ci può rendere felici?
Giorgia Rossi
giorgiarossi.naturopata@gmail.com