I primi anni della vita sono i più intensi. Sono quelli dei primi passi, delle prime parole, della scoperta del mondo: essi rappresentano l’universo della prima volta. Tuttavia, se questi momenti sono caratterizzati dallo stupore e dalla meraviglia, poco ci rimane della memoria di quegli attimi in cui imparavamo a vivere nel mondo.
Ci rimane molto poco dei ricordi della prima infanzia: se alcuni si ricordano in maniera eccezionale alcuni momenti risalenti al secondo anno di vita, la maggioranza delle persone fatica a rammentare ciò che successe prima dei 6 anni. Si chiama “amnesia infantile” l’incapacità degli adulti di recuperare la memoria dei primi anni di vita che, seppure sono i più volatili al livello della coscienza, rappresentano la traccia indelebile che condizionerà buona parte del loro futuro.
Amnesia infantile: una ragione fisiologica o culturale?
Quando cerchiamo di ricordare il nostro passato, arriva un momento in cui sembra di leggere una biografia alla quale sono state strappate le prime, preziose, pagine. Dove sono finite le nostre prime memorie?
Prima di proseguire, è ben precisare che secondo gli studiosi esistono due tipi di amnesia infantile: quella detta “hard” e che coinvolge il nostro vissuto fino ai 3 anni, caratterizzata da un’assenza quasi totale di ricordi, e l’amnesia detta “soft”, che abbraccia di solito il periodo che va dai 3 ai 6 anni e del quale possiamo conservare una vaga e sfocata memoria episodica. Al di là dei 6 anni invece è molto più facile ricordarsi del proprio passato, ecco perché questa età è definita come la childhood amnesia boundary ovvero “la frontiera dell’amnesia infantile”.
Si crebbe per molto tempo che la causa della mancanza di ricordi dei primi anni fosse da imputare allo sviluppo ancora incompleto del sistema neurologico nei bambini intorno ai 3 anni d’età. Studi recenti hanno dimostrato invece quanto l’amnesia infantile sia influenzabile dal mondo esterno, mostrando un gap importante sia nella natura dei ricordi che nell’età di questa prima memoria a seconda della cultura di riferimento.
La cultura occidentale, particolarmente improntata sull’individualità, vede una maggioranza di adulti in grado di ricordare momenti topici intorno ai 3 anni d’età rispetto alla cultura asiatica caratterizzata da un pensiero focalizzato su una concezione più collettiva che fissa i primi ricordi soltanto dai 6 anni in poi.
Secondo questa teoria, le prime memorie autobiografiche dipenderebbero dalla capacità della persona di percepirsi come un essere individuale, in grado di distinguersi dagli altri, e quindi deriverebbero dalla creazione dell’identità personale, del sé autonomo, incentivata dal proprio ambiente culturale.
Le emozioni aiutano a ricordare
Ogni nostro ricordo d’infanzia è legato ad un’emozione particolare in grado di condizionare, nel bene e nel male, gli eventi futuri in quanto ci incentiverebbero a ricercare o evitare esperienze che potrebbero portarci a vivere le stesse emozioni. In effetti, non ricordiamo indistintamente gli eventi in base ad una scala cronologica bensì teniamo memoria di ciò che risuona fortemente con la nostra identità o ciò che ci ha colpito particolarmente. In qualche modo possiamo dire che i ricordi che riusciamo a custodire in memoria parlano di aspetti topici del nostro “io”, che siano consci o inconsci: ciò che ricordiamo racconta molto di noi.
Se l’impatto emotivo è ciò che permette al ricordo di fissarsi nella nostra memoria, ciò lo iscrive di diritto nell’esperienza soggettiva, bypassando la realtà oggettiva dei fatti; ciò significa che non è tanto l’impatto obiettivo col quale un evento si sia manifestato nella nostra vita a fare la differenza quanto come, al livello emotivo, esso sia entrato nel nostro mondo personale. La soggettività del ricordo è il motivo per il quale la memoria può giocarci alcuni scherzi portandoci a ricordare alcuni eventi diversamente da come essi si sono verificati realmente.
La narrazione in differita: quando i ricordi cambiano col tempo
La memoria del passato, ricordata sulla base delle emozioni che ci ha lasciate, può evolvere col tempo, arricchendosi di particolari man mano che andiamo avanti con l’età per rispondere ad alcuni bisogni interiori di cui spesso non siamo nemmeno consapevoli. Può capitare di operare queste piccole modifiche in buonafede, anche se siamo convinti dell’autenticità del ricordo.
Questa narrazione “in differita” non è da considerarsi per forza come negativa in quanto la sua evoluzione può aiutarci a non rimanere congelati in alcuni schemi disfunzionali dovuti magari ad un’infanzia poco felice. La ricostruzione della narrazione personale legata alla prima infanzia può quindi permetterci di cambiare il nostro approccio ad un passato doloroso grazie ad un nuovo modo di raccontarlo.
Ovviamente, non si può cambiare il passato ma è possibile cambiare il modo in cui ci approcciamo ad esso, dandoci la possibilità di modificare l’impatto emotivo che possono aver lasciato in noi i ricordi che custodiamo nella nostra mente, così da portarci sulla schiena un bagaglio di memoria che ci sia utile e non d’intralcio al nostro camminare nel mondo.
“La vita sarebbe impossibile se ricordassimo tutto. Tutto sta a scegliere quello che si deve dimenticare.”
(Roger Martin Du Gard)
Fonti:
• Amnesia infantile: perché non ricordiamo nulla della nostra prima infanzia
• Gli scherzi della memoria
• Il fenomeno dell’amnesia infantile in una prospettiva socioculturale
Sandra “Eshewa” Saporito
Autrice e operatrice in discipline bio-naturali
www.risorsedellanima.it